Gli immigranti

di Filomena Baratto

Vico Equense - L’immigrazione è un fenomeno sociale che avviene in seguito a disagi e difficoltà di un popolo che si sposta verso un’altra terra per sfuggire alle guerre, alle carestie, alle oppressioni, alla povertà, alla paura, alla mancanza di un futuro possibile. Ondate di uomini, donne e bambini, in massa, stanno spogliando il continente africano. L’Italia è sempre stata geograficamente una terra di passaggio posta al centro del Mediterraneo. In questo storico crocevia abbiamo assistito a tutto: passaggi di alleati e di nemici, guerrieri, pirati, predatori... Un ruolo, quello del nostro paese, mai smesso, nemmeno oggi, e ancora è visto come la terra su cui riparare dopo aver affrontato strenue fatiche per mare. La storia non ha insegnato però a questo paese ad essere preparato allo straniero. Non è mai stata nostra prerogativa il culto dell’ospitalità, vista solo come una sorta di accettazione passiva e momentanea e non di convivenza con lo straniero. In secoli di assedi e di passaggi, incursioni e conquiste, il paese ha sempre vissuto il fenomeno come un evento straordinario e non come fase storica a cui dare delle soluzioni. Così siamo rimasti inerti anche di fronte alla massiccia migrazione degli ultimi tempi, raggiungendo paradossi mai visti prima. Il problema è stato affrontato con superficialità da tutta la Comunità Europea e con irresponsabilità dall’Italia. Ora ne avvertiamo tutto il peso e urge una soluzione energica ed efficace. Quando un problema ci sovrasta, tendiamo a minimizzare, salvo trovarcelo poi tra “capo e collo”.
 
Procrastinare è la filosofia di vita dell’Italia che, se fosse un personaggio storico, sarebbe Quinto Fabio Massimo il “cunctator”, il Temporeggiatore. Fino ad ora nei confronti dei migranti ci sono stati solo pregiudizi che hanno impedito di vedere il vero aspetto da considerare. La paura del diverso, le religioni a confronto, la disoccupazione, diventerebbero altresì problemi, nel caso in cui non si affrontassero quelli veri. E allora quali sono quelli veri? Quello di introdurre i migranti in un contesto favorevole, dare loro un lavoro, renderli e farli sentire utili e non un peso per la società ospite, offrire loro una vita dignitosa e non di ripiego sottolineando che vengono solo dopo di noi. Per ogni piccolo gruppo di migranti ci deve essere una guida, una sorta di tutor che ne segua l’adattamento e l’integrazione nel gruppo in cui è calato, così come avviene in altri paesi europei, senza affidare nulla al caso, evitando il malcontento tra i cittadini, pianificando aspetti di contrasto e soprusi da entrambe le parti. I soldi dell’Unione Europea, messi a disposizione delle associazioni e strutture ricettive per dare loro ospitalità, sono solo palliativi, o meglio, succulenti proventi che, una volta esauritisi, lasciano il problema così com’era se non aggravandolo, visto che saranno buttati fuori dalle strutture e si farà leva, come sempre, sulla solidarietà. La questione è come si integrano e quanto noi teniamo a che questo accada. Ci vuole un impegno concreto da parte delle amministrazioni e dei cittadini tutti senza rimostranze, senza lamentele, discriminazioni. L’immigrato si presenta a noi come un usurpatore e non possiamo far altro che vederlo con diffidenza, paura, rabbia, preoccupazione, esattamente come ci presentiamo noi al loro cospetto. Non dobbiamo lasciare che sentimenti di odio e di egoismo allignino in noi. Ci vuole molto di più, come seguire l’extracomunitario in ogni suo
passaggio al fine di non farlo sentire isolato e solo, rendendolo un nullafacente o dandolo alla strada, facendo in modo che finisca barbone, ladro o affiliato, ma che si integri e sia rispettoso delle leggi. Aver cura del suo benessere è come averne di noi, viceversa se non risolviamo i suoi problemi, questi poi diventano i nostri. Non c’è più tempo di chiederci se siamo pronti all’accoglienza, ma come rendere meno difficile l’integrazione. Se spostiamo la questione su questo punto, vediamo che la politica non può permettersi un atteggiamento neutrale e lasciare che si affronti tutto con idee vaghe e approssimative tanto per dire che si è fatto qualcosa. Essa deve assicurare la migliore integrazione possibile, deve contenere i costi, sviluppare situazioni socievoli, fare in modo che tutti possano convivere mantenendo i propri stili di vita senza razzismi, né prevaricazioni. Anche i paradossi contribuiscono a creare scetticismi e diffidenze come quello di avere riguardo per l’ospite ed essere magari indifferente alle stesse problematiche dell’italiano. Come, ad esempio, avere un insegnante di madrelingua per l’alunno immigrato, o una cucina del paese di provenienza e non avere la mensa per gli alunni italiani, non assicurare la presenza di un insegnante in classe o non professare la nostra religione per non offenderne un’altra. Bisogna contenere quanto più possibile le diffidenze che sono alla base di un cattivo dialogo. C’è un periodo storico che ricorda quello che sta accadendo ai giorni nostri e fu nel 489 con Teodorico re degli Ostrogoti, quando, portando in Italia il suo popolo, in base al principio di ospitalità, si trasferivano terre di grandi dimensioni da proprietari romani a guerrieri germanici. I Goti e i Romani convissero con le loro usanze e costumi in modo distinto attuando progressivamente la germanizzazione dei Romani e la romanizzazione dei Germani. I Romani per primi insegnarono il diritto dell’ospitalità lungo i confini del loro vasto Impero. Questo aspetto aveva comportato la “personalità del diritto”, che consisteva nella possibilità di un gruppo etnico di vivere secondo le proprie leggi in un territorio regolato da leggi diverse. Teodorico cercò di tenere distinte le due società anche se in un contesto politico unito, credendo fosse presto per un’integrazione completa. Fu quello un periodo di passaggio, ma il sogno dell’imperatore era quello di nobilitare i Goti agli occhi dei Romani e far conoscere la romanità ai Goti. La situazione precipitò quando si respirò aria di complotti un po’ dovunque senza più fiducia e la diffidenza cominciò a covare in ogni romano e in ogni goto. I Romani mantennero a lungo l’Impero grazie all’integrazione dei popoli che conquistavano dando loro diritti e doveri di un cittadino romano. La cittadinanza romana fu una delle più importanti conquiste dei popoli sottomessi a cominciare dalla “lex Plautia Papiria” nell’89 a.C. durante la guerra sociale con la quale si estendeva il diritto di cittadinanza a tutti gli Italici, fino alla Constitutio Antoniniana del 212 d.C. dell’Imperatore Caracalla con cui si estendeva la cittadinanza a tutte le popolazioni entro i confini. Non si contano i Romani dell’Impero che oggi vengono ricordati come romani e non come cittadini dei paesi sottomessi: Seneca, Marziale, Agostino, Lucano, Quintiliano sono solo alcuni. La migliore integrazione è quella che mantiene il mondo di appartenenza dell’ospite come un arricchimento e non un fastidio o ancora una limitazione alla propria libertà. L’integrazione avviene proprio quando si assicura ad ogni cittadino la propria libertà. Fu proprio questo il sogno di Teodorico. Le migrazioni possono essere previste e affrontate ma guai a farsi trovare impreparati. Ci siamo sentiti al sicuro mentre dall’alto ci calava addosso una realtà che non credevamo potesse diventare possibile. L’Africa si è svegliata interrompendo i nostri sonni beati, il migrante è il nostro vicino di casa e va integrato.

Subscribe to receive free email updates:

Related Posts :