Pubblichiamo un botta e risposta tra due compagni vercellesi, Lorenzo Mortara e Alessandro Jacassi, membri, tra le altre cose, del Comitato Antifascista cittadino. Lorenzo aveva postato sui social un articolo del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL): Verso la Guerra Civile in Venezuela? (lo trovate qui, e più sotto alla fine). Alessandro prima lo definiva “mare di cazzate” poi, invitato a specificare, rispondeva con le parole che trovate qui sotto. Subito dopo trovate la replica di Lorenzo, lunga e articolata, che prova a far chiarezza fra due modi sostanzialmente opposti di approcciare la lotta di classe in Venezuela: il “campismo” e il marxismo.
La critica di Alessandro Jacassi
Prima di tutto non c’è nessun tradimento o divisione dell’esercito, il tentato golpe è durato poco più di 3 ore e ha coinvolto qualche decina di militari di cui molti ingannati dai loro superiori, nessuna base militare ha disertato passando sotto il giogo imperialista dei Trump e dei Guaidò di turno; l’area interessata dal golpe è stato un ponte e un pezzo di strada limitrofa, Lopez e Guaidò cercano rifugio in ambasciate straniere dopo poche ore… Il popolo di cui ti riempi la bocca è sceso nelle strade difendendo la rivoluzione che per scelta di Chávez è, come la definisci tu, riformista, in quanto consapevoli che altro tipo di rivoluzione avrebbe subito visto una risposta armata yankee. Mi fai sempre un discorso di classe e non capisci neanche che a sostenere Guaidò ci sono solo i padroni e qualche lacchè della borghesia, estrema minoranza bianca, mentre il popolo, la classe a cui tu ti richiami è con Maduro e questo è inconfutabile, lo vede chiunque guardi i video girati nei quartieri popolari, quartieri che prima del riformismo come lo definisci tu, erano baraccopoli senza luce né fognature. Forse dovresti iniziare a viaggiare un po’ in quei paesi invece di stare chiuso solo nella tua stanza a leggere manuali impolverati e vetusti. Ciao Lorenzo se vuoi parlare di Latinoamerica meglio che impari lo spagnolo prima.
A. J.
E la replica di Lorenzo Mortara
Per capire un post di sedicenti marxisti come noi trotskisti, bisogna almeno provare a comprendere, non dico condividere, la prospettiva. Per noi la prospettiva non è il socialismo a parole del XXI secolo (che è il solito vecchio capitalismo del XX secolo, magari un po’ più spostato a sinistra, meno liberista direbbe qualcuno...), ma la lotta di classe spinta fino alla rivoluzione socialista, cioè al reale esproprio dei capitalisti (la grande industria oligopolistica, non il piccolo borghese imprenditore, padrone di piccola bottega o di bar o di altre cose non determinanti) e la trasformazione dell’economia anarchica di mercato, in pianificazione socialista sotto il controllo dei lavoratori, con la speranza che non si burocratizzi tutto nel giro di poco come nell'URSS. Ma la burocratizzazione dell'Urss non è un buon motivo per non riprovarci, tanto più che per noi l’evoluzione o l’involuzione di una rivoluzione dipende nella sostanza dalla vittorie o dalle sconfitte della lotta di classe del proletariato su scala oltretutto internazionale, e non semplicemente da quello che fa o non fa questo o quel dirigente. E le nostre non sono semplici opinioni, sono fatti che possiamo documentare come ampiamente documenteremo con numerosi esempi tratti da quell'arsenale infinito di lezioni, che è la storia della lotta della nostra classe di appartenenza.
Chi non ha questa prospettiva, difficilmente la può apprezzare o condividere, potrebbe però fare almeno lo sforzo di comprenderla, specialmente se è un compagno. Nella critica all'articolo del PCL, non solo questa prospettiva Jacassi non l’ha intesa, fregandosene bellamente, ma non si capisce nemmeno quale sia la sua, anche se l’esperienza ce la fa intuire al volo. Qual è dunque la sua prospettiva? Dimostrare che non c’è una spaccatura nell'esercito? Sconfiggere Guaidò? Appoggiare Maduro e dimostrare che il popolo sta con lui mentre i marxisti stanno da un’altra parte se non proprio con Guaidò (un classico delle accuse a chi osa criticare il leader di turno)? E va bene, anche ammesso tutto questo, e poi? Che si fa dopo aver sconfitto Guaidò senza prospettiva? Sono prospettive queste, o aspetti parziali e in alcuni casi condivisibili di chi non ha altra prospettiva che vivere alla giornata gli eventi venezuelani?
Jacassi dice che la massa sta con Maduro, l’articolo però discute dove debbano stare i comunisti. Al riguardo Jacassi non ci dice nulla, infervorato come è nel dimostrarci che le masse seguono Maduro, e che quindi lui si mette a rimorchio abdicando al ruolo di comunista, cioè di avanguardia, per quello di retroguardia. Per i comunisti è la massa che deve stare dietro alla sua avanguardia, non il contrario. La difficoltà in Venezuela è proprio questa, la massa non segue i comunisti, come riuscire ad attirare la massa verso di noi anziché verso Maduro? Jacassi non si pone questo problema perché ha già il suo campo dove stare, il campo di Maduro perché il “popolo” lo segue, ammesso che sia così, cosa che discuteremo più avanti e che è tutta da dimostrare, visto che i soli video dei “barrios” più poveri non bastano come prove. Per noi la lotta di classe, è un’arena dove intervenire per provare ad influenzare le masse, non una piazza da raggiungere semplicemente per ingrossarne le fila. Ma chi passa armi e bagagli nel campo di Maduro perché la massa lo segue, in fondo non vede la lotta di classe in tutta la sua complessa fluidità. Nonostante il suo sbracciarsi per il Venezuela, il suo intervento è un intervento passivo, almeno nel campo della classe operaia che lui accetta com’è. Eppure il ruolo dei comunisti è trasformare la realtà, a cominciare da quella della propria classe di riferimento, non subirla. Ed è proprio la passività, nonostante l’apparente attivismo, che fa perdere di vista non tanto la classe, quanto il suo scopo. E una volta perso di vista lo scopo, la classe non c’è più, sostituita dalla lotta di Maduro contro Guaidò, a cui lui offre in soccorso sé steso in aggiunta a una massa amorfa, con tutti i corollari che una simile nefasta impostazione, si porta dietro. In questo quadro, infatti, si finisce regolarmente per appoggiare il nazionalismo patriottico; ne segue che l’internazionalismo diventa fiancheggiare gli amici di Maduro, Putin in testa e Cina alla coda, che diventano imperialisti buoni di contro all'imperialismo cattivo degli USA, eccetera, eccetera. Sono queste le classiche caratteristiche del cosiddetto “campismo”, di cui il compagno Jacassi è un perfetto esemplare.
Cominciamo però dal primo interrogativo: l’esercito. Cos'è una spaccatura dell’esercito? Se il post di Jacassi ha un senso, la spaccatura è tale quando l’esercito si spacca esattamente a metà. Se si spacca con una decina di militari, che non sono affatto pochi perché i superiori non sono milioni e ogni superiore qualche inferiore se lo tirerà pur dietro, stando al suo ragionamento (sbagliato) non c’è una spaccatura. Ne segue che il chavismo, che cominciò come risposta al “Caracazo” del 1989 (un massacro proprio di quell'esercito che lui esalta, che sparò su una folla di miserabili che protestava, sterminandone qualche migliaio), con un colpo di Stato nel 1992 fallito di Chávez e di pochi militari, non cominciò con una spaccatura dell’esercito. Con cosa cominciò quindi? Con l’unità dell’esercito evidentemente, cioè con un controsenso.
Quanti erano allora i militari chavisti? 2 ufficiali superiori, 44 ufficiali subalterni, 5 sottoufficiali, 14 soldati professionali e 237 di leva (“Hugo Chávez tra Bolivar e Porto Alegre” Massari Editore). Chávez venne arrestato, riconobbe di non aver avuto forze a sufficienza, si prese la responsabilità e dette appuntamento al popolo con le prime elezioni da uomo libero qualche anno dopo. Come si vede, fu una sparuta minoranza dell’esercito a seguire Chávez, e se Chávez tentò lo stesso il colpo di stato è perché riteneva tale spaccatura dell’esercito sufficiente per farlo, e soprattutto riteneva che il popolo fosse per lo più con lui. E Chávez come Guaidò non era scemo. Come Chávez ha sbagliato i calcoli, così li ha sbagliati Guaidò. Ma le cifre esigue dei due tentativi di colpi di stato, stanno a dimostrare che anche una piccola spaccatura è pur sempre una spaccatura significativa. Tutt'al più il nostro critico sta dicendo che la spaccatura non è profonda, ma l’articolo non si addentra in questo dettaglio per la semplice ragione che non ha parlato di quanto seguito tra i militari abbia Guaidò perché il punto non è questo, almeno per i marxisti, ma un altro spiegato subito dopo nell'articolo e che qui di seguito approfondiamo. Quello che è certo è che questa spaccatura, grande o piccola, prima non c’era. È una crepa importante nel processo della rivoluzione e bisogna prenderne atto, non negarla. E soprattutto bisogna valutarla per quello che è.
Ho citato il Caracazo, non a caso, perché Jacassi gongola perché l’esercito si è ricompattato per lo più con Maduro, ma un marxista mica si esalta per l’esercito, perché sa che in regime capitalistico, l’esercito è pur sempre un corpo di guardia a protezione dei padroni e della proprietà privata borghese. L’esercitò su base capitalistica non è cioè dalla parte dei lavoratori, come dimostra quella strage e un’infinità di altri massacri in tutto il mondo che lo riprovano oltre ogni ragionevole dubbio. In Venezuela l’orrore del Caracazo ha spinto molti militari a sinistra, e il processo rivoluzionario ha alimentato questa tendenza, ma il processo rivoluzionario, senza essere mai andato fino in fondo, con la crisi capitalistica del 2008 ha cominciato ad andare indietro e pure ad arrestarsi. La svalutazione della rendita petrolifera ha fatto finire i soldi con cui il chavismo ha tolto milioni di persone dalle fogne. Le case di cui si parla nella critica sono evidentemente quelle costruite per lo più prima. Nessun marxista ha fatto mancare il suo appoggio a queste ottime riforme, come a quelle sempre più asfittiche di Maduro, solo che il marxista le ha chiamate col loro nome: riforme, non rivoluzione. Non solo, il marxista sa anche che il merito di tali riforme, senza per nulla sminuire il ruolo di Chávez, va attribuito in linea generale alla lotta di classe rivoluzionaria dei lavoratori della PDVSA, l’azienda petrolifera del Paese, che l’hanno strappata almeno in parte alle multinazionali, dando il via al processo rivoluzionario che, tra alti e bassi, dura tutt'oggi. Anche per il Venezuela, la Storia conferma la legge: le riforme sono il sottoprodotto della lotta di classe rivoluzionaria. Ma dal 2008 in avanti, con la crisi capitalistica, i piani sociali si sono sempre più ridotti perché quei pochi soldi che restano della rendita petrolifera, anziché essere usati per i poveracci, gli “antimperialisti” bolivariani li hanno usati per ripagare il debito verso i poveri usurai miliardari imperialisti e per rafforzare l’apparato bolivariano, puntellandolo sempre più con l’esercito (lo testimonia la crescita oltre i 2000 generali ben pasciuti a furia di promozioni) anziché sui lavoratori, a cui non è stato consegnato il controllo delle fabbriche, che al contrario è rimasto in massima parte ai padroni. Così, l’esercito si è imborghesito più di quanto già non fosse sulle spalle della proletarizzazione crescente e della rarefazione della lotta di classe. La quota salari, che sotto Chávez era aumentata contraendo quella dei profitti, dalla crisi ha ricominciato a ridursi a vantaggio di quell'altra. Questo il prezzo pagato da Maduro per aver con sé l’esercito: un aumento della burocratizzazione del processo rivoluzionario. Chi gongola perché l’esercito si è stretto per lo più a Maduro, farebbe meglio a chiedersi su quale linea di classe l’abbia fatto. L’esercito si è stretto a Maduro su una linea borghese, cioè sulla linea del sostanziale stallo e lento regresso del processo rivoluzionario.
Quando gli chiesero per quale motivo, nella battaglia contro Stalin, non avesse fatto ricorso all’Armata Rossa di cui era il leader riconosciuto, stimato e osannato in tutta la Russia, Trotsky rispose che chi poneva il problema in questi termini mostrava poca voglia di comprenderlo. Per lui la lotta non era contro Stalin, ma contro il processo di burocratizzazione dell’Urss. La lotta era tra la classe operaia e la sua escrescenza parassitaria. Appoggiarsi all'esercito (che stava ripristinando ordini e gradi e quindi via via privilegi crescenti proprio come in Venezuela) gli avrebbe probabilmente dato la vittoria, ma non per conto della classe operaia, bensì dell’esercito. Il prezzo sarebbe stato non la cauterizzazione del processo burocratico, ma la sua accelerazione visto che l’esercito, anziché procedere sempre più verso la milizia, stava involvendo verso il ritorno alle cariche borghesi e ne avrebbe pretese ancora di più.
Questa lezione imperitura del più grande genio del marxismo, assieme a Lenin e Rosa Luxemburg e dopo Marx ed Engels, dovrebbe essere impressa a caratteri cubitali nella mente dei compagni che tendono a scordarsela, o addirittura l’ignorano. Perciò, se è un bene che Guaidò abbia fallito, perché questo allunga la vita al processo rivoluzionario, offrendo nuove opportunità per andare fino in fondo, il rafforzamento dell’esercito borghese spinge l’allungamento della vita nella direzione opposta all'esproprio della borghesia. E questo significa che o si porta a termine in breve tempo la rivoluzione, non con le chiacchiere sul Socialismo del XXI Secolo, ma col marxismo di Lenin del XX, o tra questo golpe e il prossimo non passeranno circa vent'anni come dal golpe di Carmona del 2002 a quello di Guaidò del 2019. Ne passeranno molti di meno. Magari già tra un anno i padroni ci riproveranno. E forse vinceranno. Di chi la colpa in quel caso? Sarà mica dei trostkisti oggi poco influenti in Venezuela? O sarà forse di chi ha avallato la politica di Maduro come fosse un Papa rosso senza chiedergli di espropriare i capitalisti? Perché il golpe di Guaidò è il castigo per chi non l’ha fatta finita col capitalismo nel 2002 dopo il golpe di Carmona.
Il compagno Jacassi che sostiene ciecamente la linea borghese di Maduro, ha provato a chiedersi cosa succederebbe se Maduro sterzasse per una linea proletaria? Se invece di puntare sull'esercito, Maduro, come richiesto dai marxisti, armasse i lavoratori e li invitasse a espropriare i padroni, cioè i sostenitori di Guaidò che non si capisce per quale ragione debbano stare lì in attesa di finanziare il prossimo golpista, cosa succederebbe proprio all'esercito? Forse anziché spaccarsi grossomodo in 10% Guaidò e 90% Maduro, si spaccherebbe ancora di più, 50% Guaidò e 50% Maduro. È un guaio compagno Jacassi? E chi l’ha detto? Nel 1917 in Russia l’esercito non si spaccò forse in due come una mela? Non si spaccò cioè molto più in profondità di quanto non si sia spaccato ora in Venezuela? Eppure con quell'esercito, accerchiato da 20 e più armate straniere, i bolscevichi vinsero, perché quel 50% di armata rossa, avendola i bolscevichi fatta, difendevano davvero la rivoluzione. L’armata rossa era un esercito rivoluzionario, era cioè un esercito su una linea proletaria (niente veri e propri gradi o superiori, tutti sostanzialmente stesso stipendio, tutti nella stessa mensa, eccetera, l’esatto opposto di oggi in Venezuela dove gradi borghesi e prebende fioccano ogni giorno). Ed è meglio avere il 50% di esercito sulla linea proletaria che il 90% sulla linea borghese. Infatti, con le fabbriche sotto il controllo dei lavoratori e i padroni in braghe di tela a spasso, un esercitò al 50% moltiplica la sua forza al 500%. Ecco perché i bolscevichi vinsero, e l’altro 50% di esercito, pure aiutato, non poté nulla. Perché ogni volta che i bianchi avanzavano, non potevano far altro che togliere terra e fabbriche ai lavoratori e riconsegnarle ai padroni, perdendo di fatto l’appoggio decisivo per vincere. Al contrario, un esercito al 90% come è quello di Maduro, con le fabbriche in mano ai padroni, rischia di contare meno di zero, passando dall’altra parte al momento del dunque, che non è il golpe ma l’esproprio dei capitalisti. Ecco perché con 4 o 16 gatti Guaidò si è sentito di fare il golpe, perché la sua forza non sta nel numero di militari, ma in quello a piede libero dei padroni, nel foraggiamento dell’imperialismo da parte di Maduro e nello stallo in cui tiene la rivoluzione. E cosa farà Maduro dopo aver sconfitto Guaidò? Continuerà a tenerli a piede libero come fece Chávez nel 2002, spianando la strada per un terzo tentativo di golpe?
Trotsky e l’armata rossa difendevano davvero la rivoluzione, cioè la terra ai contadini e le fabbriche ai lavoratori, oggi cosa difendono il 90% di militari che stanno con Maduro? Difendono la cosiddetta rivoluzione bolivariana, che dopo più di 20 anni è quello che si vede, la stagnazione capitalistica, lo stallo e il sostanziale regresso della rivoluzione socialista solo iniziata e mai portata a termine. E questo significa ancora che per difendere tutto questo, e non altra roba immaginaria, Maduro ha imbarcato nel suo esercito quel 40% in più circa di militari che non l’appoggerebbero manco di striscio se lui andasse fino in fondo. Ha imbarcato cioè il 40% di possibili franchi tiratori quando verrà il prossimo golpe. Esattamente come fece Allende in Cile nel 1973, che per evitare il colpo di stato, rafforzò l’esercito, imbarcando tra i prescelti proprio Pinochet. Risultato: colpo di Stato di Pinochet per evitare il colpo di stato! Poi lacrime e commozione per il povero Allende. Va bene, piangiamo pure Allende ed esaltiamoci perché l’esercito sta con Maduro, ma non sarebbe meglio imparare una buona volta le lezioni che la storia della lotta di classe ci offre?
Il golpe è fallito, ma la situazione, non è affatto stabile. Anzi è più instabile che mai per la semplice ragione che la situazione economica, con l’inflazione galoppante, continua ad essere ai limiti della disperazione come prima e il proletariato non può reggere all’infinito una situazione del genere. Dalle vittorie di Chávez con quasi il 70%, tutte indiscutibili e certificate da numerosi organi esterni “indipendenti” (tra virgolette perché per noi marxisti non c’è mai nessuno di completamente indipendente. Ma tra questi “indipendenti” anche organi borghesi come quello di Jimmy Carter che avrebbero tutto l’interesse per dire il contrario e che quindi ci bastano e avanzano per dire che sono più che legittime), Maduro è sceso di molto, grosso modo al 50%, e anche molto di meno se si considera l’aumento dell’astensionismo e i mille trucchi che ha usato per rendere meno regolari le elezioni. Maduro non è un dittatore come lo vedono gli stupidi borghesi o il giornale “La Repubblica”, a cui della democrazia non importa un fico secco, visto che al posto del modesto “dittatore” Maduro vogliono mettere il dittatore spietato Guaidò, un assassino, perché stermini quel che resta della rivoluzione e la voglia di riscatto non ancora doma delle masse. Per noi, per definire la sua una dittatura vera e propria, Maduro deve fare ancora parecchi balzi in avanti. Tra maggioritario e riforme costituzionali più o meno passate, quella di Maduro ha più o meno le stesse storture antidemocratiche che hanno le democrazie europee, per non parlare di quella USA infinitamente più dittatoriale del regime di Maduro. La riprova è che nel 2015 alle ultime elezioni libere, Maduro ha perso andando pesantemente in minoranza. E nessuna dittatura ha mai perso le elezioni. È per questo però che Maduro ha inventato la truffa vera e propria dell’Assemblea Costituente per avere il 100% e controbilanciare il parlamento. Ma al di là di questa palese truffa, in generale, in altri frangenti, Maduro non ha impedito alla destra di farsi eleggere, come si affannano a ricordare i sostenitori di Maduro modello Gianni Minà. È la destra che a volte si rifiuta di candidarsi per poi gridare ai brogli. Tutto vero, ma a differenza dei Gianni Minà, noi non vogliamo dimostrare alla destra che siamo democratici con lei. Non ci importa nulla della destra e di cosa pensa, tanto meno siamo interessati a darle democrazia, perché vogliamo farla finita con la sua democrazia borghese parlamentare e passare a quella nostra proletaria e consiliare che la esclude. Per noi, se Maduro vuole affogare la destra nel petrolio, offriamo non solo le mani, ma anche i piedi in soccorso. Perché non è in gioco la democrazia, ma la rivoluzione socialista. E il problema democratico di Maduro, per noi, come l’articolo mostra chiaramente, è che la sua “dittatura”, se c’è, è rivolta più che altro a sinistra, contro le avanguardie operaie classiste, cioè i capi più risoluti del proletariato, quelli che più spingono per andare fino in fondo all’esproprio. Modello Landini insomma, che per riconquistare il tavolo di trattativa in FCA, buttava fuori dalla Fiom chi scioperava contro Marchionne. E questo i sostenitori antimarxsiti di Maduro non lo dicono, ma è la cosa fondamentale e che dovrebbe preoccupare qualunque compagno, anche il più sprovveduto. E a maggior ragione dovrebbe preoccupare quei compagni che qua in Italia vedono quanto la burocrazia sindacale della Cgil sia contro i lavoratori, e non si capisce per quale ragione in Venezuela debbano invece farsi paladini di un’analoga burocrazia parassitaria che sta soffocando la rivoluzione. Perché colpire a sinistra, è il modo migliore per indebolire la rivoluzione e ringalluzzire la destra, che infatti più Maduro picchiava, più rialzava la testa fino ad arrivare al golpe dopo aver acquistato coraggio con la vittoria alle elezioni del 2015. Dal 2015 al 2019, 4 anni son tanti, ma non così tanti da poter credere che l’umore delle masse sia cambiato più di tanto. E non tener conto della pesante sconfitta del 2015, per giudicare l’umore del popolo, significa chiudere gli occhi sulla crescente disaffezione delle masse.
In Italia chi si riempie la bocca della parola popolo, sarà forse Potere al Popolo, non certo i marxisti che si sono rifiutati di entrarci per mantenersi sul binario di classe della lista Sinistra Rivoluzionaria (PCL+ Sinistra Classe Rivoluzione (SCR) ex FalceMartello). Perché non ci piace la parola popolo? Perché il popolo è interclassista. Il popolo è la borghesia assieme al proletariato e alla piccola borghesia. Tutte le classi messe assieme sono il popolo. Già solo questo dovrebbe bastare per capire che il popolo non è con Maduro, al massimo lo è la classe, cioè il proletariato e questo è ancora da vedere. Ma il compagno Jacassi usa quasi indifferentemente la parola popolo e classe. Infatti, dopo aver spiegato le cose più ovvie e cioè che Guaidò è appoggiato dalla borghesia, dall'imperialismo USA e dai loro reggi-coda (non è corretto e preciso neanche così, ma diamolo per buono al momento per scremarlo più avanti), si affretta a ribattere “mentre il popolo, la classe è con Maduro”. No, non ci siamo! Capisco che possa sembrare una questione di lana caprina, ma il popolo e la classe non sono la stessa cosa. Ed è ovvio che chi adopera i due termini come fossero sinonimi, perde immediatamente la possibilità di comprendere il discorso marxista e finisce per fare una critica specchio semplicemente dei suoi pregiudizi.
Il popolo è tutta la “popolazione civile” interclassista di cui parla l’articolo. Il popolo tutto da una parte non esiste nella nostra società ancora divisa in classi. Non solo, i processi rivoluzionari, sono precisamente i processi più evidenti di polarizzazione sociale tra le classi. Mai come nei processi rivoluzionari il popolo si divide in borghesia da una parte e proletariato dall’altro. Jacassi ci ha spiegato che dalla parte di Guaidò c’è solo la borghesia, l’imperialismo americano, e qualche lacchè, per esempio la polizia. Noi aggiungiamo un dettaglio fondamentale che sfugge all’occhio non clinicamente marxista: non tutta la borghesia venezuelana sta con Guaidò. Dalla parte di Maduro c’è tutta la classe più proletaria e povera come si vede chiaramente dai video dei quartieri. Ma la classe più povera e proletaria non è tutta la nostra classe e la classe non sta tutta nei barrios. A occhio e croce, tenendo conto della forte astensione e della sconfitta del 2015, una parte importante della nostra classe è rifluita nell'apatia, e quel grosso che resta è privato dei suoi elementi più coscienti che Maduro ha destituito. Maduro ha destituito anche la maggior parte dei dirigenti dell’epoca d’oro del chavismo, dirigenti se non marxisti certo molto più a sinistra di quelli attuali. Anche e soprattutto per queste cose, le mobilitazioni, per quanto consistenti, sono meno ampie che in passato, soprattutto in relazione a quelle dell’opposizione che sono molto aumentate e non sono certo piccole, e anzi a vedere il Primo Maggio erano quasi equivalenti. Inoltre, che vuol dire che Russia e Cina appoggiano Maduro? Cina e Russia sono altri due imperialismi borghesi. Ci sono industrie cinesi in Venezuela e milioni di capitale finanziario russo, per non parlare di quello spagnolo. E poiché la borghesia indigena dipende da quella imperialista, evidentemente una buona fetta di borghesia venezuelana, subordinata a quella russa o cinese, appoggia Maduro nell'attesa che rimpiazzino gli americani, insieme con quella spagnola che si sta sfilando dall'appoggio a Guaidò. Guaidò è debole proprio perché l’imperialismo americano non è più l’unico padrone borghese in Venezuela. E di certo la Cina, che tratta i suoi operai come bestie, non appoggia certo Maduro nell’interesse della classe più povera dei barrios. Ecco come Maduro, che non ha affatto tutta la nostra classe con sé, è in compenso in ottima compagnia borghese. Non solo: poiché il grosso dell’esercito si è ricompattato a suon di prebende con Maduro, dalla sua parte ci sta anche un pezzo non indifferente di apparato militare. Eh già, perché Jacassi si è dimenticato che l’esercito è un corpo borghese. Le file della borghesia pro Maduro si ingrossano. E più si ingrossano più, in caso di necessità, su chi volete che spari l’esercito quando dovrà scegliere tra gli operai in rivolta e l’imperialismo cinese pro Maduro per cui questi lavorano?
Nonostante l’intreccio di interessi contrapposti, la borghesia nel suo complesso, non ne può più di Maduro, ma non è disposta a rompersi il collo fintantoché gli strappa laute concessioni. Ci prova a destituirlo ma al primo segnale che i piani non vanno come sperato, può tranquillamente permettersi di scaricare Guaidò e continuare a tramare nell'ombra. E questo non è un vantaggio per la nostra classe. Perché il nostro campo di classe, è evidentemente inquinato dalla presenza ingombrante di una fetta importante di borghesia. E questo significa che la nostra classe più povera sta usando male e nella direzione sbagliata la sua forza. E a gioco lungo potrebbe esserle fatale.
Non è ovviamente finita qui. Non manca forse ancora qualcosa? Manca evidentemente la piccola borghesia che Jacassi si è dimenticato per strada. E con cosa le ha vinte l’opposizione, le elezioni del 2015, se non con l’apporto decisivo della piccola borghesia? È il colmo! La piccola borghesia, la classe più numerosa in tutte le nazioni, la stessa classe a cui lui appartiene, nonostante faccia il proletario duro e puro, per Jacassi non esiste. Eppure è proprio il punto dirimente della polarizzazione. La piccola borghesia con chi sta? Rispetto all’epoca di Chávez s’è spostata molto a destra. Maduro l’ha persa per strada in questi anni di crisi e di stallo rivoluzionario. Guaidò quindi non ha solo imperialismo americano, borghesia venezuelana e lacché dalla sua parte, ha pure una fetta considerevole di piccola borghesia strappata faticosamente al proletariato dopo anni di crisi economica. Lo provano appunto le elezioni del 2015 perse da Maduro, l’aumento dell’astensione e l’aumento vertiginoso degli scontri di strada, cioè le prime scaramucce di guerra civile di cui si parla. Guaidò non avrebbe assoldato tanti banditi di strada per assaltare ed uccidere, se non avesse avuto un appoggio crescente della piccola borghesia. Non è un elemento trascurabile. Per vincere, infatti, il proletariato ha bisogno di tirarsi dietro la piccola borghesia. Senza la piccola borghesia al suo fianco, il proletariato è destinato a perdere. A Jacassi di tutto questo non frega niente, a lui basta vedere che la classe più povera asserragliata nei barrios è con Maduro, cioè tra le altre cose con metà degli imperialismi in campo. A noi non solo non basta che la classe sia con Maduro, ma appurato che la classe sta per lo più con lui, ci facciamo pure due domande: primo, il proletariato, rispetto agli anni più gloriosi della rivoluzione bolivariana, è più compatto o più sfilaccciato? E abbiamo appena visto che è sfilacciato, perché la politica di Maduro l’ha sfiancato, decimandolo delle sue avanguardie e destabilizzando sempre più la piccola borghesia. Quello che si vede nei quartieri, è un proletariato con ancora molte risorse, ma è un proletariato meno ampio e soprattutto meno cosciente, e quindi molto più debole di una decina di anni fa, e lo sarà ancora di più se queste risorse non verranno usate. Seconda domanda: le masse proletarie stanno per lo più con Maduro, e va bene, ma per fare che cosa? Per difendere la rivoluzione bolivariana, cioè con le stesse parole del compagno Jacassi, non mai nostre come sostiene, «le riforme… in quanto consapevoli che altro tipo di rivoluzione avrebbe subito visto una risposta armata yankee». Tralasciamo la rivoluzione che può scegliere se essere rivoluzionaria o riformista, che è un non senso uguale a dire che uno juventino può essere tale o milanista. La rivoluzione riformista non rivoluzionaria, semplicemente non è una rivoluzione. Siamo comunque alla fine della parabola, allo scioglimento del mistero che tanto misterioso non è. Invece di spiegarci la rava e la fava di chi sta con chi, Jacassi, se solo avesse avuto coscienza di sé stesso, avrebbe potuto dirci quello che noi abbiamo capito fin dalla sua prima riga, prima ancora che l’avesse scritta: lui sta con Maduro non perché il popolo sia con lui, ma perché lui e Maduro, nonostante le frasi roboanti, sono in realtà riformisti della più bell’acqua. Uno, Maduro, perché lo è per convinzione o semplicemente perché militare, e l’altro, Jacassi, peggio, per incoscienza. Ma i marxisti no, non lo sono mai stati. Non appoggiamo Maduro proprio per questo, perché non siamo e mai saremo riformisti, ma rivoluzionari, e il nostro problema è avanzare anche solo di un passo verso la rivoluzione. Appoggiando Maduro non si avanza di un passo nemmeno verso le riforme, visto che per farle bisogna incitare alla lotta di classe, non ingabbiarla. Ma se le farà, non sappiamo come, vista la crisi e la sua politica disastrosa, di nuovo le sosterremo, esattamente come sosteniamo spalla a spalla i lavoratori mentre respingono Guaidò. Stessa tattica dei bolscevichi che, senza appoggiarlo, stavano spalla a spalla con Kerenskij mentre respingevano il colpo di stato di Kornilov. Solo non lo facciamo al grido di “Viva Maduro!” ma a quello di “Viva la rivoluzione, quella vera, quella che espropria le fabbriche, non quella finta che le lascia ai padroni!”.
Le masse più proletarie, inconfutabilmente per Jacassi e per lo più per noi, sono però con Maduro. E allora? Che significa? Per Jacassi è chiaro: appoggio a Maduro. Per noi significa spiegare a Jacassi che appoggiare Maduro vuol dire appoggiare le illusioni delle masse. Il compito dei rivoluzionari è togliergliele, aprendogli gli occhi. Se dovessimo appoggiare Maduro solo perché appoggiato dalle masse, oggi in Italia dovremmo appoggiare Salvini, visto il nutrito seguito di lavoratori che ha. E se Salvini come esempio non piace perché troppo a destra, facciamo quattro esempi di sinistra. Le masse tedesche, nel 1914, non stavano forse con la socialdemocrazia, cioè coi riformisti di allora, quando il 4 agosto questa le spedì nel macello della prima guerra mondiale? Dovevamo appoggiarla solo per il consenso che aveva? Le masse italiane nel 1921, quando fondammo il nostro Partito Comunista, non stavano coi socialisti che avevano appena fatto fallire la rivoluzione, in cambio per altro di conquiste importanti come ferie, pensioni e aumenti consistenti di salari? E oggi i tesserati Cgil non ripongono tantissima fiducia in Landini? Dobbiamo per questo appoggiarlo o denunciare la sua linea di connubio coi padroni? E in Russia nel 1917, il governo provvisorio del febbraio del 1917 non era forse un governo di sinistra? Kerenskij e menscevichi erano pur sempre socialisti, cioè persino più a sinistra di Maduro. E anche lì, inconfutabilmente, avevano l’appoggio delle masse operaie. Epperò quando Lenin torna nell’Aprile, la parola d’ordine dei bolscevichi diventa “nessun appoggio al Governo provvisorio”. Per forza, perché Lenin vuol fare la rivoluzione socialista, non la riforma più o meno borghese dei menscevichi. Perché Kerenskij, proprio come Maduro, è un riformista. E le masse lo abbandoneranno quando, dopo 7 mesi di denuncia e critica implacabile del Governo provvisorio, Lenin le avrà convinte che i bolscevichi hanno ragione. Conquistare le masse alla causa della rivoluzione, questo, oggi come ieri, è il compito dei comunisti in Venezuela, non consegnarle inerti al campo di Maduro che le sta via via perdendo per la sua politica suicida. E questo compito i marxisti svolgono pazientemente in Venezuela, non nel campo di Guaidò o sul cucuzzulo della montagna come lascia trasparire il compagno campista per poca e nulla voglia di approfondire le posizioni altrui, ma direttamente nei “barrios”, cioè nei bastioni del chavismo. C’è chi lo fa da dentro i partiti chavisti, come la Tendenza Marxista Internazionale (TMI), di cui fa parte Sinistra Classe Rivoluzione (SCR ex FalceMartello) e chi da fuori come altri marxisti come noi che non credono nella tattica “entrista” della TMI. Ma sempre sostanzialmente quello si fa: difendere la rivoluzione con le uniche parole d’ordine in grado di farlo: quelle marxiste, perché quelle di Maduro difendono il campismo, cioè neanche più le riforme, visto che la crisi del capitalismo del 2008, ha tolto ogni spazio per farle e si sta pure rimangiando pian piano quelle già concesse.
Jacassi dice di sostenere Maduro perché le masse stanno con lui. Questo, però, è in realtà il motivo apparente del suo appoggio. La verità più profonda ce l’ha espressa poco dopo in due righe che lo smascherano impietosamente oltre ogni ragionevole dubbio per quello che è. Lui appoggia Maduro perché, come Chávez, è convinto che «non bisogna fare la rivoluzione per non scatenare la reazione armata (yankee in questo caso». Eccolo qua il vero motivo del suo sostegno, eccola qua la quinta essenza del campismo, che altro non è che il solito vecchio DNA del riformismo, di cui il campismo non è che l’ennesima variante. Infatti, non è anche questo, inconfutabilmente, il refrain automatico di tutti i riformisti di tutte le razze e le latitudini? Non è solo una frase di Chávez, ammesso l’abbia mai detta. È il marchio dei Kautsky, dei Bernstein, dei Martov, dei Turati, dei Buozzi, e poi ancora degli Stalin, dei Togliatti e dei Thorez e dei Cunhal. È la lapide di tutti i traditori del movimento operaio: «qui giacciono tutti i paladini della sconfitta operaia con le loro mani. Lasciate ogni speranza rivoluzionaria o voi che entrate!».
Dove l’abbiamo sentita l’ultima volta, la frase simbolo del riformismo? Al corso di Storia per delegati Fiom. Il professore, preparato sui libri borghesi o stalinisti, ha fatto una curatissima lezione dalla nascita della Fiom fino più o meno al 1968. Ebbene, quando è stata ora di spiegare la Resistenza fino all’attentato a Togliatti del 1948, come ha giustificato la mancata doppia rivoluzione? «Non si poteva fare la rivoluzione, altrimenti la presenza della reazione degli alleati angloamericani l’avrebbe repressa nel sangue come in Grecia». Ecco, come l’ha spiegata. Eppure, poco prima, ci aveva detto che a Jalta nel 1942, Churchill, Roosevelt e Stalin, si erano spartiti il mondo, l’est alla Russia, l’Ovest agli americani. E poiché l’Ovest apparteneva al capitalismo, Stalin aveva sciolto la III Internazionale, ammainando in tutta Europa la bandiera della rivoluzione. Stop compagni! Nessuno a Ovest osi opporsi al capitalismo e fare la rivoluzione (ci metterà del suo per stopparle anche ad est ma questa è un’altra storia)! Ne segue che non possiamo avere un Partito Comunista Italiano, con un Togliatti lungimirante che frena la rivoluzione per non scatenare la reazione, e un partito comunista greco che la fa venendo bastonato. In realtà abbiamo due partiti comunisti controrivoluzionari che la stoppano, frenano e sabotano, così in Italia, così in Grecia. Tuttalpiù la differenza sta nel fatto che il PCI riusci a controllare e ingabbiare meglio del KKE le masse lavoratrici, ma la politica dei due partiti fu identica, altrimenti sarebbero incorsi nella scomunica di Stalin. Scomunica che infatti colpì Tito in Jugoslavia, il quale, contravvenendo agli ordini di Stalin, guarda caso riuscì a fare la rivoluzione. E a chi obbietta che Tito non aveva la presenza ingombrante degli alleati, rispondiamo che innanzitutto anche così Stalin aveva intimato a Tito di non farla perché non c’erano le condizioni, cioè aveva trovato per la Jugoslavia le stesse, identiche scuse, e in secondo luogo la presenza dell’esercito alleato non era la presenza di una serie di Robot, ma di uomini in carne e ossa. Soldati che, vista la loro provenienza sociale per lo più proletaria, potevano tranquillamente essere conquistati alla causa, se i tre partiti comunisti, Jugoslavo, Italiano, Greco, più il quarto, quello Francese, avessero dato il via contemporaneamente a un tentativo serio e reale di insurrezione. Sarebbe stato un po’ difficile per non dire impossibile per gli alleati, intervenire su 4 fronti per sedare il focolaio insurrezionale, specie se i comunisti l’avessero accompagnato facendo appello all’esercito alleato di soldati semplici proletari. Anche l’esercito alleato si sarebbe sfaldato su linee di classe. La storia non si fa coi se e coi ma, anche se un calcolo oltremodo prudente delle ipotesi alternative è doveroso, se non la si vuole sottomettere a una visione apologetica e ad un’interpretazione deterministica. Quello che è certo è che se non si fa con i se e con i ma, meno ancora può essere fatta con le bugie. In Italia come in Grecia come dappertutto, tranne dove la si fece, andarono in scena sabotaggi belli e buoni di tutte le rivoluzioni. A guardia del sistema capitalista si misero gli stalinisti. In Venezuela ci si mette Maduro.
Cos’è invece la reazione yankee? Non sarà forse il colpo di stato di Guaidò? Guaidò non è forse appoggiato dall’imperialismo americano con soldi e armi sottobanco? Eppure il compagno Jacassi ci ha appena spiegato che è la rivoluzione a spingere gli yankee ad armarsi. C’è qualcosa che non quadra, qui abbiamo la reazione yankee sotto forma di Guaidò armata contro la riforma, prima ancora della rivoluzione. E nel 1973 in Cile, Allende aveva forse fatto la rivoluzione quando venne bombardato? Tutto il contrario. Già sappiamo che aveva promosso Pinochet per calmare l’esercito, aggiungiamo che aveva restituito ai padroni centinaia di fabbriche occupate dai lavoratori, firmato solennemente in parlamento le “garanzie costituzionali”, cioè che non avrebbe mai calpestato la proprietà privata dei mezzi di produzione, infine si era rifiutato di armare i lavoratori per scongiurare la guerra civile. Risultato: la guerra civile con un massacro con pochi precedenti nella Storia, e la sconfitta completa della rivoluzione cilena per aver fatto solo e soltanto delle riforme senza mai essersi spinti più in là. E non poteva essere altrimenti: quale occasione migliore, per un nemico armato fino ai denti, di quella di attaccare un esercito di operai che un riformista si rifiuta di armare di fronte al pericolo? E nessuno nega che anche lì, gli operai fossero per la stragrande maggioranza con Allende. Ma non lo erano le sue avanguardie come non lo sono oggi quelle di Maduro.
Cosa insegna la sconfitta epocale cilena del 1973 a chi vuole imparare qualcosa dalla storia della lotta di classe? Che la borghesia non è scema, non aspetta di vedere se tu fai una riforma o una rivoluzione per attaccarti. Quando gli operai sono in subbuglio e cominciano a spingersi avanti, il suo istinto di classe la spinge a non fidarsi dei dirigenti riformisti che le garantiscono che li terranno a freno, non tanto perché non creda alla buona fede dei riformisti, ma perché con tutta la loro buona volontà, i riformisti non riescono a tenerli buoni come lei vorrebbe. Perciò aspetta solo di avere la forza per schiacciare gli operai. Questo avviene regolarmente, dopo che i riformisti hanno già fatto metà del lavoro sporco, sfiancando e respingendo come possono gli assalti più audaci ed estremi degli operai. Quando dopo questo lavoro da “picadores”, la classe operaia comincia a perdere slancio, per la stanchezza e il disorientamento, ecco il momento in cui la borghesia dà la stoccata finale. La reazione, compresa quella yankee, dipende cioè dai rapporti di forza, non dall’aspetto più o meno radicale della tua politica. A volte, come nel caso di Guaidò, la borghesia sbaglia i calcoli e anticipa i colpi, questo non cambia la dinamica di progressivo sfiancamento e logorio delle masse intrapresa da Maduro.
Inoltre, il tentativo di Guaidò, dimostra che i padroni ci provano pure quando hanno solo una carta da giocare, e nemmeno tanto buona. E se vuoi vincere devi imparare a fare come loro, perché l’arte della lotta di classe non è altro che imparare ad usare una forza uguale e contraria a quella della borghesia. I campisti non solo non l’hanno imparata, ma la vogliono insegnare usandone mezza e nemmeno in senso tanto contrario. È per questo che perdono regolarmente. Chi non fa la rivoluzione per non scatenare la reazione, pretende di giocarsi la carta della rivoluzione solo quando ha in mano tutto il mazzo, una situazione che nella realtà non può esistere, perché non può esistere una rivoluzione armata che non si trovi davanti una controrivoluzione altrettanto armata, così come non esiste un colpo di stato reazionario senza un contraccolpo in risposta delle masse. Il problema non è la reazione armata della controrivoluzione. Quella è inevitabile se si vuol fare la rivoluzione. Il problema è se si può vincere, possibilmente nel tempo più breve possibile. La borghesia insegna che anche con una sola carta bisogna provarci. E se ci prova la borghesia con una carta bucata come quella di Guaidò, non si capisce per quale ragione non debba provarci il proletariato che ha il match-point in canna. Del resto la logica conseguenza della frase “la classe è con Maduro”, se solo la logica di Jacassi fosse rivoluzionaria, sarebbe quella di pretendere immediatamente da Maduro la rivoluzione. A cosa serve, infatti, avere la classe dietro se poi non la si dirige contro i padroni, ma solo contro Guaido? Lenin, nell’Ottobre 1917 cosa conquistò a fare la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca? Per grattarsi la “uallera”? Per i comunisti avere la classe dietro, è il segnale che la rivoluzione è matura. Si tratta di usarla e dirigerla al più presto contro la borghesia per schiacciarla, prima che sia troppo tardi. A sentire Jacassi invece, sembra che aver le masse dietro, sia l’occasione per tirarla in lungo per vent’anni e dire semplicemente “Viva Maduro! Il popolo è con lui”. In breve la classe è con Maduro per niente che è come sprecare la forza della classe, come appunto vent’anni di rivoluzione bolivariana attestano.
La logica di Jacassi è quella di Chávez, diamogliela per buona, che giudicò impossibile la rivoluzione. E questo al campista appare addirittura come maturità e consapevolezza. Il marxismo giudica Chávez un riformista e il campista il ritratto dell’incoscienza rivoluzionaria. Chávez, un militare, apparteneva al ceto medio, a quella frazione di piccola borghesia risoluta che possiamo definire rivoluzionaria, che si spinge molto avanti, al limite delle colonne d’ercole della rivoluzione borghese. Raramente queste persone si spingono oltre e Chávez non ha fatto eccezione a differenza, per esempio, di Fidel Castro. Più del suo assennato giudizio, è la sua collocazione sociale che non gli fece vedere lo sbocco rivoluzionario. Non era del tutto impossibile che Chávez si sarebbe spinto fino alla rivoluzione, specialmente man mano che si spostava a sinistra e il movimento progrediva, ma ora il processo si è invertito e Maduro che già non ha mai avuto lo slancio di Chávez, è molto difficile che si spinga fino alle estreme conseguenze. Tuttavia, qualora lo faccia, noi saremo lì al suo fianco per portare a termine l’operazione. In ogni caso, è il proletariato e nella fattispecie, il marxismo, cioè il suo elemento più rivoluzionario e cosciente che deve giudicare se sia possibile o meno fare la rivoluzione. Perché mai dovremmo farcelo dire da borghesi, militari, riformisti e piccolo borghesi? Se aspettiamo che siano loro a farlo, aspetteremo fino al giorno del giudizio, perché in 150 anni di lotte, non ne hanno vista una che è una di possibilità rivoluzionaria. E sarebbe ben strano, se in verità non fosse più che normale che non la vedano mai, visto che è la loro collocazione sociale a impedirgli di vederla. In effetti, oltre alla classe operaia, strettamente connesse con essa, ci sono solo due categorie di persone che in 200 anni hanno visto, quando era ora e proprio perché le hanno volute, le rivoluzioni: anarchici e marxisti, nessun altra. E casualmente, spulciando qua e là i siti anarchici, non ce n’è manco uno che appoggi Maduro, e non per il semplice rifiuto parlamentare degli anarchici, ma perché tutti giudicano il regime regressivo, quando non addirittura reazionario o peggio ancora fascista, cosa quest’ultima che noi escludiamo. In compenso è facile trovarne uno che chieda più o meno come i marxisti, la fine del capitalismo, cioè la rivoluzione, perché evidentemente viene giudicata matura. Speriamo solo che a conquistare le masse siano i marxisti e non gli anarchici, altrimenti vedremo in Venezuela la riedizione sudamericana del disastro spagnolo degli anarchici del 1936.
L’anarchico è sempre un po’ empirico, ma il marxismo giudica possibile la rivoluzione basandosi semplicemente sulla lotta di classe e su cosa mettono in campo le due principali forze contrapposte, borghesia e proletariato. In questo compito, naturalmente, è aiutato dall’insegnamento di tutte le rivoluzioni precedenti. Ma non c’è solo il marxismo che la giudica possibile. Ci sono anche le avanguardie classiste che Maduro ha destituito. Non sono certo state destituite perché stanno con Guaidò, ma in linea generale perché vogliono farla finita col capitalismo e andare fino in fondo alla rivoluzione. Le masse quindi non giudicano proprio come Maduro o i campisti che la rivoluzione non si possa fare per non scatenare la rivoluzione yankee. Più precisamente, la parte più grossa e meno cosciente delle masse giudica, forse, come Maduro. Sottolineo “forse”, perché la Storia ha dimostrato che le masse per lo più non giudicano una guida in base alle idee o ai programmi, le masse scelgono sulla fiducia in base alle forze o ai partiti più vicini che trovano lungo il cammino di lotta. Questo solo per dire che se domani Maduro decidesse di far la rivoluzione, le masse che “giudicano con Maduro”, non lo abbandonerebbero di certo. Anzi sarebbero ancora più entusiaste perché la loro testa seguirà anche Maduro, ma nel loro cuore, magari latente, batte il cuore del marxismo, cioè il loro interesse di classe più genuino. E se questo è vero per loro, lo è ancora di più per quelle avanguardie che giudicano come il marxismo, all’opposto di Maduro. E se sono state destituite significa che c’è un solco nelle masse tra il grosso della classe e la sua avanguardia rivoluzionaria. Ed è più a questa che bisogna guardare, non a quella. In Cile nel 1973 successe la stessa cosa. È incontestabile che man mano che si avvicinava il golpe di Pinochet, si acuiva anche lo scontro tra i vertici dell’Unidad Popular di Allende e la base. Man mano che i “cordones industriales” (sorta di soviet) intensificavano le occupazioni prendendo sempre più coscienza dell’inutilità dei padroni e della necessità di armarsi, in controtendenza marciava l’Unidad Popular che non esitava a far intervenire la polizia contro i lavoratori per riconsegnare le fabbriche ai padroni. In Italia, nel 1945, successe la stessa cosa. Mentre Togliatti portava avanti la collaborazione di classe col Governo borghese di unità nazionale, alla Fiat, la classe operaia si muoveva nel verso opposto (cfr. Liliana Lanzardo: Classe operaia e Partito Comunista alla Fiat, Einaudi). E nonostante la forte contrapposizione, la classe era pur sempre con Togliatti. Il rapporto tra capi e masse, cioè, è qualcosa di più composito e dialettico di quanto si creda, e va studiato nei suoi dettagli se si vuol comprendere davvero una dinamica rivoluzionaria. In Cile, il solco, nel suo complesso, non separò le masse dall’Unidad Popular ma fu comunque molto profondo e decisivo, in senso negativo, per la dinamica oggettiva della rivoluzione. Fu più profondo di quello attuale tra le avanguardie di massa venezuelane e Maduro, per la semplice ragione che in Cile la radicalizzazione e quindi la coscienza era andata molto più avanti e in Venezuela sta andando indietro. Non di meno anche qua, in Venezuela, non va sottovalutato, perché sarebbe anche più profondo, qualora ci fosse un partito rivoluzionario in grado di raccogliere questa opposizione e organizzarla. Ma il partito non c’è, è in ritardo, esattamente come non c’era in Cile, e il contrasto tra il vertice e la parte più cosciente delle base, si risolse in disorientamento e perplessità generale che portò le masse ad arrivare all’appuntamento col golpe di Pinochet come agnelli portati al macello per essere sgozzati.
Cosa mette in campo la borghesia più pericolosa, cioè la borghesia imperialista yankee e quella alleata subimperialista venezuelana (in nessun paese subimperialista esiste una borghesia indipendente. Quella è dappertutto, e quella è anche in Venezuela)? Guaidò coi suoi pretoriani e le sue bande di strada. La forza dell’imperialismo yankee è sostanzialmente tutta qua. Perché non si capisce per quale ragione, se disponessero di altro arsenale, non dovrebbero usarlo. Si capisce invece dai rapporti di forza su scala internazionale per quale motivo, Guaidò è, tutto sommato, tutto quello di cui dispongono. L’impero americano è da anni in declino, la sua forza internazionale dalla fine della seconda guerra mondiale si è grosso modo dimezzata rispetto alle altre potenze. Impantanato su più fronti di guerra nel medio oriente, preso al cappio dai debiti verso la Cina, pressato dall’imperialismo russo (Cina e Russia appoggiano Maduro), dalle potenze europee, da una crisi interna che è tutt’altro che alle spalle, e sopratutto da un popolo mai come oggi intriso di idee socialisteggianti, gli USA hanno grosse difficoltà a intervenire più pesantemente di così in Venezuela. E questo era già chiaro nel 2002 quando fallito il colpo di Stato di Carmona, non poterono far altro che prendere atto della loro sconfitta. Perché la sconfitta di Carmona come quella di Guaidò non sono altro che la sconfitta dell’imperialismo yankee e della sua reazione armata. Non si capisce quindi perché spazzando via anche i capitalisti espropriandoli, l’imperialismo già sconfitto prima della rivoluzione, indebolito e azzerato dalla perdita di fabbriche e terre che ha in loco, dovrebbe avere a quel punto più forza di prima per scatenare la reazione. È vero l’esatto opposto. La reazione è già stata scatenata ed è stata sostanzialmente sconfitta. È lasciando gli artigli ai capitalisti che si scatena la reazione, non tagliandoglieli. Anche qui la storia del fascismo dice niente? Gli operai occupano le fabbriche, i socialisti le restituiscono ai padroni, i padroni per ringraziarli del regalo, regalano a socialisti e operai il fascismo. Non è la rivoluzione che scatena la reazione, ma il suo posticipo e tradimento riformista.
La sconfitta della reazione imperialista americana è un’indubbia vittoria della rivoluzione, ma non è ancora quella decisiva fino a che la rivoluzione non esproprierà i padroni. Fino ad allora la situazione resterà in bilico, ma più passerà il tempo, più il tempo giocherà a favore della reazione, perché approfondirà la disillusione delle masse e le darà l’occasione di ricaricare il fucile.
Nel 2002 sconfitto Carmona, era praticamente un gioco da ragazzi far la rivoluzione. Il consenso al chavismo era molto più alto di ora, gli USA erano impantanati in Iraq e Afghanistan, in tutto il Sud America spirava un vento progressista. Chávez preferì lasciar passare una delle occasioni più favorevoli della Storia. Ora il vento progressista in Sud America è passato, gli Usa sono più in crisi di prima ma Maduro ha perso per strada molto terreno. Si tratta di recuperarlo ed è possibile farlo. Non con la politica di Maduro, però, che è la politica del rinculo, ma con una politica rivoluzionaria.
Trotsky ha spiegato sulla base dell’esperienza che la piccola borghesia è disposta a seguire il proletariato, solo se il proletariato si dimostra audace, non se rincula continuamente abdicando al suo interesse socialista. La piccola borghesia è schiacciata dalla grande di cui subisce la pressione usuraia. Solo espropriando le banche e nazionalizzandole, il proletariato potrà mettere fine all’inflazione galoppante dandole il credito che le serve a interessi bassi e convenienti. Ma deve farlo in fretta, prima che si scolli ancora di più dalla rivoluzione. Chávez l’aveva grosso modo con sé, infatti anche senza espropriare i capitalisti, la rendita petrolifera bastava un po’ per tutti. Oggi che la piccola borghesia è scollata, il proletariato meno fermo e sicuro, espropriare banche e capitalisti farà recuperare velocemente il terreno alla rivoluzione. Può darsi che ci vada un po’ di tempo. Parole d’ordine audaci lo accelereranno. Si tratta di costruire il più rapidamente possibile il partito di massa della rivoluzione che sia in grado di farlo, perché 20 anni di rivoluzione chavista e oltre 5 di Maduro, attestano che la rivoluzione bolivariana non è rivoluzionaria. Il marxismo è in campo per questo, per conquistare le masse alla causa giusta, strappandole al madurismo fallimentare. Siamo in ritardo, è vero, ma a chi ci rimprovera di non contare niente e di esserlo sempre, rispondiamo che finora, al primo appuntamento della Storia risultato vincente, ci siamo arrivati noi, e che dopo, le poche distorte vittorie, sono state ottenute perché ad arare il terreno eravamo passati sempre noi, mentre invece, tutti, ma proprio tutti, gli infiniti fallimenti che si sono susseguiti, sono dovuti alla nostra assenza alla guida. E siccome dagli anarchici, ai riformisti, agli stalinisti, una volta al timone, hanno collezionato solo sconfitte su sconfitte per responsabilità diretta, forse un po’ di pudore e rispetto verso i marxisti non guasterebbe. Non vogliamo comunque fare i saccenti più di quanto già non sembriamo. Riconosciamo il ritardo come riconosciamo le nostre insufficienze, siamo così in ritardo che forse siamo pure dei marxisti ritardati, ma forse non lo saremmo così tanto se un numero enorme di sedicenti comunisti ci desse una mano a costruire il partito comunista della rivoluzione. La domanda non è quindi, perché noi non appoggiamo Maduro, ma perché i comunisti, anziché appoggiare il partito della rivoluzione proletaria, appoggiano il partito del campismo, vale a dire la burocrazia chavista, Maduro in testa, che se non oggi domani, affosserà la rivoluzione? Perché una volta è Maduro, una volta è Tsipras, una volta è Allende, possibile che i comunisti ancora non abbiano capito che devono appoggiare sé stessi, la loro fiducia nella conquista delle masse e non altri? Cosa mai se ne faranno le masse di comunisti che non hanno fiducia in sé stessi? Lo sforzo dei marxisti non sarà vano. Qualunque sarà il loro peso, fosse solo un granellino di sabbia, servirà a spingere nella giusta direzione il movimento dei lavoratori. Vano sarà lo sforzo di tutti quelli che ci porteranno alla sconfitta.
Infine una nota linguistica, quasi un post scriptum. Lo spagnolo è una lingua meravigliosa, e io lo proporrei come lingua universale dei comunisti. È tanto più bello sapere più lingue, quanto più affinano l’internazionalismo, che dovrebbe essere la sua più diretta conseguenza. A leggere il linguista Jacassi, sembra invece l’opposto, perché oltre a ignorare la piccola borghesia, il suo scritto “bilingue”, da vero campista, si segnala per l’assenza totale di internazionalismo. E niente è più triste di un comunista multilingue che con cinque dizionari nella bocca non sia riuscito a trovare, non dico una parola, ma almeno una virgola o un refolo di internazionalismo.
Jacassi ci ha spiegato che la rivoluzione è riformista per non scatenare la reazione. Noi abbiamo risposto banalmente che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. E abbiamo appena mostrato che la reazione, è l’azione uguale e contraria del riformismo, non della rivoluzione. Ci resta da chiarire cosa siano davvero azione e reazione in una rivoluzione.
Cosa succederebbe a grandi linee in caso di una rivoluzione socialista in Venezuela? Il campista non se lo chiede, perché una rivoluzione ha immediati risvolti internazionali, e il campismo, oltreché un riformismo, è anche prima di tutto un becero nazionalismo, la cosa più deleteria per il proletariato. Poiché solo la borghesia può essere nazionalista, il proletariato o è internazionale o non è. E perciò chi sostiene Maduro che si appella al nazionalismo per difendere la patria bolivariana, difende direttamente o indirettamente la borghesia, l’unica che ce l’ha.
Una rivoluzione socialista in Venezuela, avrebbe come effetto immediato di separare gli amici, specialmente quelli falsi, dai nemici. E lo farebbe con una chiarezza cristallina che oggi non è neppure immaginabile. Una chiarezza che finché la rivoluzione resta nelle secche stagnanti dell’indeterminazione, non è possibile vedere, a meno di essere un marxista, l’unico che ha gli strumenti ottici per farlo anche al buio.
L’esercito si spaccherebbe in due come una mela, così la metà dei cialtroni che oggi vi si sono imboscati per tornaconto, non potrebbero più mascherarsi da rivoluzionari. E di questo abbiamo già parlato. Cina e Russia che appoggiano Maduro per proprio tornaconto nella guerra commerciale contro gli USA, si ritroverebbero immediatamente contro, magari pure alleate agli USA. Cina e Russia, infatti, sono due stati capitalistici, e nessun stato capitalistico appoggia una stato operaio che col capitalismo l’ha fatta finita. Cina e Russia, quindi, rimpolperebbero la reazione esanime degli USA. Il Venezuela proletario potrebbe consolarsi di aver almeno mezzo accoppato 1 dei 3 dei nemici borghesi, quello più pericoloso, quello americano. Le Nazioni Unite, unite dal capitalismo, proverebbero a isolare la rivoluzione, strozzandola con boicottaggi ed embarghi di ogni tipo.
Il campista, a questo punto, potrebbe essere spaventato. Se prima vedeva solo la reazione immaginaria dello Stato Yankee, adesso vede un mondo intero che fa cordone sanitario contro il Venezuela, il mondo di merda del capitalismo. Il campista vede solo il lato della tragedia, cioè la reazione dei nemici borghesi. Per forza, puntando tutto su Maduro e l’esercito, non può vedere il lato della commedia, cioè l’aiuto infinitamente più numeroso degli amici proletari mondiali.
Per il solo fatto di vincere la propria borghesia interna in combutta con quella americana, il proletariato venezuelano sarebbe 10 volte più forte. Già solo questo dovrebbe bastare per non temere la reazione dell’universo intero. Come la Russia è riuscita a resistere e vincere nel 1917 in condizioni estremamente più sfavorevoli, come Cuba è riuscita a respingere nel 1961, l’invasione americana alla Baia dei Porci, così dovrebbe essere almeno chiaro che far cadere il Venezuela proletario sarebbe comunque un’impresa molto difficile. Cuba ce la fece anche grazie alla Russia, è vero, oggi quel supporto per altro molto ambiguo manca, ma il capitalismo è molto più debole di allora, e Cina Russia e Unione Europea sono molto distanti per costituire una minaccia gigantesca. In breve, già solo così, ci sarebbero ottime possibilità di restare in piedi.
A questi vantaggi interni, si aggiungono quelli ancor più numerosi esterni che renderebbero ancora più rosea la situazione. La rivoluzione in Venezuela, sarebbe quasi automaticamente anche la rivoluzione in Bolivia, dove un analogo processo rivoluzionario non potrebbe che emularla. Segnerebbe anche di colpo la caduta di Bolsonaro in Brasile. In breve il vento progressista che abbiamo visto in Sud America fino a qualche anno fa, si riaccenderebbe di nuovo e soffierebbe dieci volte più forte. Dovunque assisteremmo a focolai rivoluzionari, specie se il Venezuela non stesse lì ad aspettarli con le mani in mano, ma li accompagnasse fondando o rifondando l’Internazionale Comunista, magari la V di cui parlò Chávez. Cosa impedì la fondazione della V? Ma la burocrazia cubana ovviamente, che si mise di traverso. Avallare la V Internazionale, significava infatti riconoscere la IV di Trotsky e di conseguenza il fallimento della III presa in mano da Stalin. La burocrazia cubana, stalinoide e completamente estranea ad ogni idea di internazionalismo, si impuntò, tanto più che mentre in Venezuela iniziava la rivoluzione bolivariana, a Cuba si intraprendeva il movimento inverso, introducendo pian piano misure di mercato, per replicare in piccolo il trapasso da stato operaio a stato capitalistico già visto in Russia e in Cina. La rivoluzione venezuelana interromperebbe immediatamente questa deriva cubana, riportandola sui binari giusti della pianificazione e della sburocratizzazione. Gli Stati uniti socialisti del Sud America sarebbero davvero all’ordine del giorno e non particolarmente difficili da realizzare se a dirigere il tutto ci fosse il marxismo. Le masse in Sud America, infatti, sono conciate più o meno come nella Cuba di Batista, molto peggio, quindi, che in quella dei Castro. Il richiamo della rivoluzione cubana è perciò ancora molto potente, e sarebbe più che raddoppiato dall’affiancamento di una rivoluzione in Venezuela.
Diverso e più complesso sarebbe il rapporto della rivoluzione venezuelana col mondo occidentale, Europa e Stati Uniti. Le masse occidentali, nonostante l’austerità, godono ancora di un tenore di vita molto elevato rispetto a quello da terzo mondo del Sud America. La rivoluzione venezuelana, quindi, non godrebbe di appeal, fino a quando, estesasi in tutto il continente sudamericano, non fosse in grado di sviluppare le forze produttive a un livello tale da ridurre quel gap. Il gap economico però non è tutto. La rivoluzione è lotta di classe, e la lotta di classe si alimenta di vittorie. Accerchiata dall’imperialismo mondiale, la rivoluzione infliggerebbe un colpo devastante ai suoi nemici, non pagando un centesimo di dollaro del debito. Dal 2008, il capitalismo, per uscire dalla crisi, si è indebitato fino al collo una volta di più. Nel 2019 la speculazione borsistica ha raggiunto livelli superiori a quelli d’inizio crisi. Da più parti si aspetta solo il colpo che faccia da detonatore a una nuova e più devastante crisi. La cancellazione del debito venezuelano con un tratto di penna, creerebbe un buco nella finanza mondiale così forte da poterla forse colare a picco nel giro di poco. Il capitalismo entrerebbe di filata nella più grossa crisi della sua storia, più grossa di quella del 1929 e del 2008 messe assieme. Per primi affonderebbero gli imperialismi più deboli, Russia e Cina già sommersi dai debiti, specie quest’ultima. In Cina, tenuto conto della grandi mobilitazioni di questi anni degli immensi bastioni operai, la rivoluzione sarebbe all’ordine del giorno.
Nel 2008, lo scoppio della crisi, portò a un arretramento senza precedenti del proletariato europeo. Ma la crisi economica da sola non fa molto. È la lotta di classe che fa tutto. Nel 2008 la borghesia approfittò della crisi per infliggere pesanti sconfitte al proletariato. Completamente diverso in caso di rivoluzione in Venezuela. La rivoluzione in Venezuela, farebbe entrare il proletariato da vincitore nella crisi. Non avremmo la borghesia all’attacco, ma in difesa. Il proletariato europeo entrerebbe sicuramente in scena, vincendo probabilmente parecchie battaglie. E questo darebbe tantissimo respiro alla rivoluzione venezuelana che avrebbe molto più tempo di accorciare le distanze. Analogo discorso vale per gli Stati Uniti, dove il sogno americano, per l’incubo del capitalismo, si trasforma ogni giorno di più nel sogno del socialismo. Un appello alle masse del mondo per sostenere il Venezuela, si trasformerebbe in breve nell’incendio della rivoluzione mondiale. Il capitalismo potrebbe essere in ginocchio prima di quanto pensassimo.
E se tutto questo non si verificasse e la rivoluzione venisse schiacciata o soffocata? È molto difficile che non si verifichi manco una delle previsioni prudenti viste qui sopra, ma anche qualora si andasse incontro a sconfitta, non ci sarebbe molto da recriminare perché altra via non c’è. Chi la invoca, in fondo, non fa che pretendere che Capitale e Forza-lavoro non confliggano in maniera irriducibile. Siccome evitare questo è impossibile, non resta che percorrere fino in fondo la strada del conflitto come qui mostrato, mettendosi in testa che in caso di sconfitta o di parziale vittoria, una politica rivoluzionaria come questa avrà dato il massimo su scala nazionale e internazionale.
a M.M. perché impari
il dono della sintesi
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Verso la guerra civile in Venezuela?
30 Aprile 2019
Né con la destra reazionaria proimperialista, né con il regime bonapartista della boliborghesia!
Armare i lavoratori, il potere ai consigli operai e popolari!
Il Venezuela sta andando probabilmente verso la guerra civile. La spaccatura dell'esercito, dopo quella della popolazione civile, spinge rapidamente verso di essa. La destra reazionaria proimperialista ha ritenuto, a torto o a ragione, di poter tentare di impadronirsi del potere. Ovviamente i rivoluzionari non si schierano con queste forze. Ma non possono nemmeno schierarsi a difesa dell’attuale regime bonapartista che ha portato al disastro l’economia e difende sostanzialmente gli interessi di quella che si definisce boliborghesia, in cui sono compresi funzionari dell’esercito e dello Stato che si sono arricchiti col regime. Nonostante il carattere bonapartista e solo falsamente socialista del chavismo, i rivoluzionari si erano sempre schierati in passato contro le forze reazionarie proimperialiste. Lo faranno certamente difendendo il Venezuela in caso di intervento diretto delle forze imperialiste.
Oggi, però, la situazione è diversa. Con le elezioni bidone della cosiddetta Assemblea costituente bolivariana (in cui, non a caso, il 100% dei deputati sono maduristi), il regime si è consolidato in senso antidemocratico. Nel contempo, si è rafforzata l’azione repressiva contro le forze sindacali classiste e il blocco del rinnovo delle cariche sindacali per difendere i burocrati agenti del madurismo.
La politica oscillante del regime, che continua a pagare il debito estero in una situazione catastrofica, ha aggravato (insieme alle manovre dell’imperialismo) il collasso economico del paese. Solo la cessazione del pagamento del debito, l’istituzione del controllo dei lavoratori sulle aziende sia private che statali, il controllo della produzione agricola, del commercio e dei prezzi da parte di comitati popolari formati da operai, impiegati, braccianti e contadini poveri può modificare il quadro attuale.
Tutto ciò, e l’uscita del Venezuela dalla sua tremenda crisi, sarà possibile solo se il proletariato saprà porsi come forza alternativa ai due contendenti borghesi in scontro, costruire la sua propria autorganizzazione in consigli, comitati, milizie, e imporre un suo potere. Naturalmente la costruzione di un vero partito della rivoluzione socialista che sappia guidare questo processo ne è la condizione necessaria.
Il progetto della rivoluzione socialista è ambizioso e difficile. Ma senza di esso il futuro del paese è il caos, il sangue e la miseria. I proletari venezuelani non devono combattere e morire né per i borghesi proimperialisti né per la boliborghesia, ma solo per il futuro loro e dei loro figli.
Per un governo delle lavoratrici e dei lavoratori, basato sulla loro forza e organizzazione!
Per un Venezuela veramente socialista!
Per gli Stati uniti socialisti dell'America centro-meridionale!
Partito Comunista dei Lavoratori