CINQUE STELLE CADENTI
di
Norberto Fragiacomo
Gli esiti delle elezioni “in Friuli” (per la verità ci sarebbe pure la Venezia Giulia, ma l’informazione italiana l’ha ormai tacitamente abrogata!) sono stati catastrofici per il moVimento lanciato da Beppe Grillo: i cinque astri che risplendettero la notte del 4 marzo parrebbero essersi ridotti ad altrettante stelle cadenti.
Lo smacco subito in Molise è stato soltanto l’anticipazione di un’autentica disfatta a nordest: in meno di due mesi il M5stelle ha perso oltre 106 mila dei 169.299 voti conquistati a marzo (alla Camera), passando dal 24,56 al misero 11,67% di preferenze ottenuto dal candidato Presidente Alessandro Fraleoni Morgera. Se poi considerassimo esclusivamente i voti di lista lo scenario sarebbe ancor più desolante: una percentuale del 7,06% significa meno di 30 mila suffragi. Prendiamo per buono il primo dato, e non solo perché spiace infierire: nel caso dei 5stelle, sempre beatamente soli, chi sceglie il front-man sceglie automaticamente anche la lista.
Come spiegare un crollo così repentino a fronte, ad esempio, dell’exploit dell’amica-nemica Lega, capace di raccogliere (e questo l’avevo pronosticato) un clamoroso 35%?
Cerchiamo degli indizi in grado di fornirci una spiegazione. Il primo, su cui torneremo, è il crollo dell’affluenza, percepibile già da chi si è recato alle urne in mattinata: al posto delle lunghe file di marzo, seggi vuoti o semivuoti. Siamo passati dal 75 ad un 50% scarso: persino la Lega, pur guadagnando 9 punti percentuali, ha perso – lo dicono i numeri – 30 mila voti. Fossi in loro non ne farei un dramma (e difatti sono giustamente euforici): alle regionali, storicamente, va a votare molta meno gente che alle politiche, e quello leghista si può dunque considerare a ragione un ulteriore passo avanti. Verso dove? Verso il governo del Paese, direi (mercati permettendo).
La sostanza è questa: la Lega conferma di avere uno “zoccolo duro”, mentre quello dei 5stelle si è sbriciolato a cammino appena intrapreso. Effetto amministrative, sempre penalizzante per il movimento? Avessero raggiunto il 20% potremmo opinare di sì, con il 17/18 (che onestamente mi aspettavo) avremmo il dovere di essere scettici, ma l’11 non lascia adito a dubbi. L’elettorato che a fine inverno aveva puntato sul M5stelle stavolta se ne è rimasto a casa oppure, approfittando del ponte, è andato a farsi una bella passeggiata in collina. Un segno di disaffezione e di sfiducia, comunque.
Inutile addossare colpe al candidato di punta, anche se a dire il vero l’uomo dai due cognomi è sembrato a molti una scelta infelice: romano (come la Serracchiani, peraltro), un breve passato a destra, è apparso sin da subito un terzo comodissimo per Fedriga e per il navigato amministratore Bolzonello, sostenuto da un PD in affanno e da qualcosa che è stato spacciato per sinistra (Open – Sinistra FVG: ha raccolto il 2,7%, fin troppo). Ad avviso di chi scrive sarebbe stato più saggio candidare un consigliere regionale uscente (in genere si sono ben comportati) piuttosto che un insipido pesce fuor d’acqua, ma non credo che se - per esempio – si fosse optato per l’operosa Bianchi il risultato sarebbe stato granché più lusinghiero.
La “romanità” di Fraleoni Morgera assurge, a ben vedere, a metafora di una sconfitta maturata proprio a Roma: ad azzoppare i 5stelle sono state le inconcludenti consultazioni per la formazione del Governo nazionale. Perché la Lega non ha subito analoga penalizzazione, verrebbe da chiedersi, e lo stesso PD ne ha risentito in misura ridotta? In fondo, l’impasse è responsabilità di tutte le forze in campo… vero, ma più dei fatti conta oggi la percezione.
Il 33% di voti incamerati ai primi di marzo ha messo i pentastellati in una situazione scomodissima: quella del vincitore pirrico che, pur avendo “trionfato” sul campo, non è in grado di mettere immediatamente a frutto il successo ed è tuttavia obbligato a mantenere l’iniziativa. Rammentate le accuse rivolte ai grillini un lustro fa di non voler governare (con Bersani, e in posizione subordinata), rinverdite per tutto l’arco della scorsa legislatura? Questa loro presunta riluttanza ad assumersi compiti di governo è stata uno dei leitmotiv della campagna elettorale (quella vera, nazionale): per liberarsi di un marchio d’infamia innanzitutto mediatico Di Maio e compagnia si sono immediatamente messi in gioco, ma l’hanno fatto con l’eccesso di esuberanza che è tipico dei neofiti – e dei dilettanti. Perché il “fornaretto” si sia bruciato ambedue le mani è presto spiegato: alle condizioni da lui proposte nessuno dei due potenziali interlocutori aveva interesse a fare un patto. Non Salvini, che sarebbe stato socio di minoranza in un esecutivo 5stelle-Lega e punta invece, nel breve-medio periodo, ad egemonizzare il centrodestra sfilando (non strappando!) il bastone del comando a un Berlusconi in declino ma ancora aggressivo, ma neppure il PD, la cui rappresentanza parlamentare è stata forgiata da Renzi a propria immagine e somiglianza. La Lega può prendere in considerazione due scenari: il primo – e forse preferibile – prevede un’opposizione durissima ed elettoralmente lucrosa ad un governo di intese più o meno larghe (“del Presidente”, cioè stile Monti), il secondo consiste in un accordo su base paritaria con i pentastellati “benedetto” da Berlusconi. Quest’ultimo ha fatto ampiamente capire di essere indisponibile, gelando un Di Maio che incautamente aveva aperto all’appoggio esterno. In realtà il problema mi sembra proprio questo: la scarsa cautela mostrata a più riprese dal premier in pectore, che è parsa bramosia (e in parte lo è) di andare al potere, ma è che senz’altro anche figlia dell’inesperienza, di una disarmante immaturità politica. Abilmente “provocato” dai potenziali partner, che socchiudevano improvvisi spiragli di trattativa per richiuderli mezz’ora dopo, il nostro ha nei fatti rinnegato l’identità (per così dire) storica del movimento, manifestando disponibilità a trattare con Forza Italia e PD, “scordandosi” a più riprese del reddito di cittadinanza, ergendosi a campione di un europeismo ed un atlantismo che probabilmente gli appartengono, ma non sono certo nel DNA del M5stelle (cioè dei suoi semplici militanti, lontani dall’insondabile vertice).
Per dimostrare la propria affidabilità istituzionale il giovane leader si è lasciato invischiare in una melina pilotata da altri, pur illudendosi ingenuamente di avere il pallino in mano: stava addirittura per cadere nella trappola tesagli dal PD che ha accarezzato per un attimo l’idea di imporgli, in cambio dell’agognata partnership, il proprio programma di governo. Non fosse stato per la tracotante insipienza politica di Renzi l’operazione sarebbe probabilmente andata in porto, cancellando per gli anni a venire i 5stelle dalla scena nazionale: avremmo assistito al singolare caso di un predatore che si fa divorare dalla vittima designata (di cui scopertamente aspira a prendere il posto come garante delle elite euroatlantiche).
Attenzione: tale fretta appare meno sconsiderata ed inspiegabile se si tiene a mente la famigerata regola dei due mandati. Di recente si è fumosamente ventilata l’ipotesi di una deroga per Di Maio&co, ma ci credo poco: essa diverrebbe concreta se Giggino fosse capace – per miracolo! – di uscire positivamente dalla situazione di stallo, mentre nell’eventualità opposta un ricambio generalizzato (quasi tutti gli odierni coprotagonisti, da Fico alla Taverna, sono appunto al secondo mandato, mentre la carta di riserva Di Battista ha saltato un giro) rappresenterebbe per il “partito” fondato da Grillo e Casaleggio l’unica opportunità di sopravvivenza politica.
Il problema sono però i sostenitori, di varia provenienza ma inquadrabili in due categorie: i “duri e puri” delle origini, che inorridiscono alla sola prospettiva di un patto con PD e/o Berlusconi e – a conti fatti – resterebbero volentieri all’opposizione, e chi il 4 marzo ha domandato attraverso il voto un pieno “riconoscimento” e pretende ora che le promesse siano mantenute (e dall’opposizione mantenerle è impossibile). Accontentare gli uni senza scontentare gli altri è impresa ai limiti dell’impossibile, ma la disinvoltura nelle trattative e i cedimenti “tattici” paiono aver irritato i primi e deluso i secondi: il disastro “friulano” sarebbe allora il prodotto di questa strategia di cortissimo respiro adottata dall’aspirante panificatore.
Della marea di sfondoni commessi Di Maio dovrebbe essersi finalmente accorto, a giudicare dalla linea intransigente esibita negli ultimissimi giorni: alle profferte di una Lega ringalluzzita ha seccamente risposto picche, mentre l’ipotesi di accordo presentata al PD sembra “vecchio stile” (in senso buono): visto che, grazie all’affossatore (del PD) Renzi, qualsiasi proposta sarebbe stata inevitabilmente respinta tanto valeva sottoporne una che mettesse nero su bianco le differenze (teoriche) fra le due formazioni.
“Al voto! Al voto a giugno!” grida adesso il giovanotto di Pomigliano d’Arco, provando a riconquistare la riva dopo essersi cacciato da solo nella palude. Gli fa eco Beppe Grillo che, preoccupato per le sorti della sua creatura, riesuma se stesso e persino il referendum sull’euro: mi sembra inverosimile che, dopo le ripetute professioni di europeismo degli ultimi mesi, qualche elettore non tifoso sia così sprovveduto da abboccare all’amo.
E gli altri? Il PD – vittima di un’evidente sindrome di Stoccolma e ridicolizzato dal servilismo dei suoi maggiorenti nei confronti di un condottiero orgoglioso delle batoste prese - si è suicidato senza clamori in una direzione-farsa: ottima notizia per chi scrive, ma ora il campo è libero per una Lega che, senza fare sfracelli, vive di rendita sugli svarioni altrui. Il futuro sorride a Salvini, ma attenzione a UE e mercati: in passato il loro potere di ricatto sulla nostra classe politica si è rivelato ben più efficace di quello esercitato a sprazzi dall’esecrabilissima mafia.
In mezzo all’incertezza e alla frustrazione generali residuerebbero teoriche praterie (tendo a ripetermi, lo so…) per una sinistra marxista antitetica al sistema e capace di offrire risposte forti e di rottura alle problematiche esistenti: tocca invece accontentarsi di una sua variante addomesticata e folkloristica, che blatera di “nuovi partigiani che vengono dal mare[1]”. Ogni commento su affermazioni di tal fatta sarebbe superfluo: game over, e già al primo schema.