MA ESISTE VERAMENTE UN FUTURO A SINISTRA?
di Riccardo Achilli
Sono reduce dall’Assemblea annuale del Network per il Socialismo Europeo, il cui titolo, significativo, consisteva in un domanda: “C’è futuro per la sinistra in Italia?” Devo dire che, alle volte, le risposte più significative ai grandi quesiti derivano da impressioni e sensazioni, più che da complessi ragionamenti. E’ nel corpo vivo della militanza della politica che si colgono i segnali di consapevolezza della situazione e della capacità di riscossa, dopo le sconfitte storiche. Da questo punto di vista, la sensazione è quella di un mondo piuttosto cristallizzato su schemi tradizionali e speranze fideistiche. Nel suo intervento, Giovanni Paglia rimanda ad un imprecisato lungo periodo la speranza incrollabile di una rinascita della sinistra, poiché le contraddizioni del neo-capitalismo produrrebbero inevitabilmente, prima o poi, una nuova fora di sinistra. Si tratta evidentemente di un cascame di cultura politica otto-novecentesca, che positivisticamente attribuisce alla dinamica storica un avanzamento in senso progressivo, scaturente dalle contraddizioni intrinseche della struttura.
Quello che è evidente, invece, è che a protrarsi nel tempo, ed a rafforzarsi nelle fasi di ristrutturazione in senso regressivo del sistema, sono le istanze sottostanti le ragioni storiche della sinistra: la giustizia sociale, l’eguaglianza formale e sostanziale, la liberazione dallo sfruttamento e dall’alienazione dal modo di produzione. Ma non è affatto detto che tali istanza saranno, in futuro, rappresentate da una sinistra politica autonoma. Non è una disquisizione teorica. Ci sono realtà nazionali, come l’Argentina, in cui la sinistra politica è ridotta a livelli testimoniali, e dove le istanze di sinistra sono rappresentate da correnti interne a forze politiche nate e radicatesi al di fuori della sinistra (nell’esempio specifico, il kirchnerismo, corrente interna al peronismo, populismo caratterizzato nei suoi anni iniziali da una matrice per molti versi vicina al fascismo sociale). Evidentemente, se la sinistra di massa riesce ad esprimersi, sotto il profilo organizzativo, soltanto come una sottospecificazione di altre forze politiche, popolari ma non socialiste nel loro DNA (ed anzi incorporanti nel loro bagaglio ideologico anche matrici politico-culturali ostili al socialismo) essa sarà sempre strutturalmente fragile ed esposta a tradimenti interni ma anche a possibili degenerazioni legate al conflitto interno fra posizioni inconciliabili (come, ancora una volta dimostra la triste fine del kirchnerismo).
Varrebbe allora la pena di interrogarsi circa l’evoluzione dello scenario politico italiano, per chiedersi se vi sarà spazio per una sinistra politica autonoma nel futuro. Non vi è dubbio, e il travaglio interno all'arco politico per la formazione di un governo politico lo dimostra, che ci si trova nel mezzo di una crisi profonda, di tipo istituzionale ma anche più specificamente politico ed ideologico. Le crisi annunciano sempre un conflitto fra un mondo nuovo che sta emergendo, mentre il vecchio resiste per sopravvivere. L’emergere di una Terza Repubblica annuncia la fine del bipolarismo fra un centro-destra liberal-corporativo e reazionario sul piano dei diritti civili ed un centro-sinistra socio-liberista e progressista sul piano dei diritti civili, ovvero le crisi dell’asse sul quale la politica italiana si è basata dopo Tangentopoli.
La crisi economica prolungata e l’allargamento delle diseguaglianze distributive prodotto dalla risposta neoliberista a detta crisi hanno polarizzato la società, spezzando quel ceto medio liquido e poco differenziato che aveva sostenuto quello schema politico. Tale schema ha però prodotto un risultato permanente, che si trasferirà anche nel mondo a venire, ovvero l’esaurimento dello spazio di una sinistra di classe ed antagonista, ridottasi a produrre istanze interstiziali rispetto al pensiero dominante, ed a forme di individualismo metodologico in salsa progressista. Di conseguenza, venendo meno la capacità conflittuale del lavoro, il conflitto sociale si è trasferito tutto quanto dentro la sfera del capitale, fra una piccola borghesia sempre più proletarizzata quanto a posizionamento nel modo di produzione (anche in ragione degli sconvolgimenti del mondo del lavoro prodotti dalla new economy) e grande capitale globalizzato e finanziarizzato.
Il proletariato tradizionale si è frazionato al suo interno fra segmenti in conflitto fra loro, spesso lungo le linee del conflitto interno al capitale (con una élite di lavoratori legati alle imprese finanziarie, alle multinazionali e quindi pronta a seguire gli interessi del grande capitale export oriented, ed i lavoratori delle piccole e medie imprese basate sul mercato interno sempre più depresso dalle politiche economiche neoliberiste, che forniscono benzina alle destre populiste e nazionaliste).
Si manifesta poi l’emergere di nuove classi che derivano essenzialmente da nuove forme di estrazione di plusvalore creativo e mentale(come il precariato cognitivo, o i lavoratori della new economy sul modello Uber) caratterizzate da una combinazione di caratteristiche proprie del vecchio proletariato e della piccola borghesia, genericamente caratterizzate da una autopercezione più prossima a quella del piccolo imprenditore che del lavoratore dipendente. Dette classi emergenti, specificamente affette da precarietà economica ed esistenziale, fondono i loro interessi con i nuovi poveri (i working poors, i pensionati con trattamenti di livello medio-basso) ed il sottoproletariato urbano su precise richieste: un reddito di cittadinanza che offra livelli minimi di continuità reddituale, il contrasto a politiche migratorie troppo permissive, viste come foriere di aumento della competizione sul mercato del lavoro e di spossessamento identitario e culturale, nonché una moralizzazione della Casta, letta perlopiù come capro espiatorio e sfogo delle proprie difficoltà esistenziali.
In sostanza, nel conflitto fra un grande capitale cosmopolita, quindi liberista, europeista e favorevole alle manifestazioni della globalizzazione (come l’immigrazione) ed un piccolo e medio capitale (comprensivo dei ceti emergenti) sempre più proletarizzato imperniato sul mercato interno, quindi tendenzialmente sovranista ed interessato a forme di tutela economica (protezionismo) e reddituale (reddito di cittadinanza), con il mondo del lavoro frazionato ed impotente, pronto a seguire uno dei due antagonisti interni al campo del capitale, si delinea un nuovo asse politico: non più centrodestra o centrosinistra, ma “sistemici” ed “antisistemici”. Basta analizzare le mosse recenti del M5S, vero e proprio agente della transizione verso questa nuova forma di asse politico: le proposte di alleanza di governo avanzate da Di Maio si rivolgono soltanto ai soggetti che dovranno essere trasportati nella nuova repubblica: al PD, che rappresenterà il polo sistemico ed alla Lega, che costituirà l’altro polo, sovranista, mentre un terzo polo, che continuerà a proporre una logica antisistema di tipo pauperistico e moralistico, non dissimile da una forma blanda di neogiacobinismo, sarà quello del M5S stesso. Perché tanta ostilità verso Berlusconi, quando poi si apre ad un Pd che da un punto di vista criminale e corruttivo non è certo secondo a nessuno? (Peraltro un Berlusconi colpito dalla sentenza di Palermo proprio nei giorni di negoziato sul nuovo governo, e si ricordi che le transizioni politiche italiane vengono sempre favorite dalla via giudiziaria). Per vari motivi (anche per le sue amicizie pericolose con Putin) ma soprattutto perché egli rappresenta fisicamente il vecchio asse politico della Seconda Repubblica. In sostanza, perché il nuovo nasca, i due agnelli da sacrificare devono essere Berlusconi e Renzi, con il suo progetto di fusione neocentrista fra PD e FI.
Le tradizionali istanze della sinistra sopra ricordate si coniugano sempre più dentro il dibattito fra “più” o “meno” Europa, “più” o “meno” immigrati, in sostanza dentro una logica “sistema/antisistema” che rischia, precisamente, di farne diventare le varie articolazioni delle sottospecificazioni, da un lato, di qualche populismo più o meno sovranista e/o pauperista (in questo senso, rischia di divenire una sottospecificazione o della Lega o del M5S), e dall’altro del PD. Chi parla di riedizione del centrosinistra, quindi, riesuma uno strumento politico defunto, messo fuori gioco dal cambiamento di focus della conflitto politico, si candida a diventare la sottospecificazione “di sinistra” del PD.
Evidentemente, la perdita di un posizionamento autonomo renderà la sinistra poco più che una forma di “sottocultura” delle culture politiche dominanti, incapace di fare egemonia. E’ possibile fermare una simile deriva? Si tratterebbe di fare un lavoro culturale, e poi politico, mirato a spezzare trasversalmente l’asse “sistemici-antisistemici”, con un gioco di sponda fra i due campi, che ne colga il meglio e lo rideclini in un linguaggio ed un sistema di valori socialisti, ancorandoli in profondità alla tradizione ideologica del socialismo, ma sapendola attualizzare rispetto ai problemi in campo (che andrebbero intanto affrontati, e non messi sotto il tappeto, nascondendoli con slogan vuoti e buonismo inutile – euro ed Europa, immigrazione, sicurezza sono temi ai quali rivolgere attenzione, tornando a parlarne, non dissimulandoli dietro le logore bandiere ideologiche del passato). Si tratterebbe cioè di sciogliere l’asse “sistema-antisistema” dentro una terza posizione che sappia leggere e mettere a sistema in una proposta organica il meglio dei due elementi in campo dal punto di vista degli interessi di classe dei propri rappresentati, costruendo un compromesso sociale e programmatico originale, attuale e anche in grado di risvegliare il cuore (oltre che i cervelli) che offra ai ceti popolari una alternativa al dualismo “sistema-antisistema”, mostrando loro come, in tale dualismo, essi rivestano di fatto soltanto il ruolo della massa di manovra elettorale e della carne da cannone delle sperimentazioni sociali.
E’ un lavoro difficilissimo, che presuppone una attenta analisi sociale, anche rigorosa in termini di strumenti e metodologie, un linguaggio nuovo, attento ai temi attuali ed a quelli prospettici, che però sappia richiamare anche i valori intramontabili del passato, una capacità di sintesi avanzata di una domanda sociale che non proviene più dai blocchi sociali novecenteschi, compatti e di facile lettura, ma da una società atomizzata e disgregata dalle mille voci contrastanti, una capacità organizzativa sui territori e una rinnovata presenza nei luoghi della disperazione e del conflitto, una capacità di fare massa critica con il sindacato su grandi lotte strategiche (che a sua volta dovrebbe aggiornare in profondità lettura del mercato del lavoro e strumenti di intervento), una classe dirigente credibile e selezionata nel fuoco della lotta politica, chiamando chi è bollito e non più credibile a fare da levatrice e formatore di questo nuovo gruppo dirigente.
Francamente non penso che la sinistra attuale, dai suoi dirigenti ai suoi simpatizzanti, sia capace di questo immane lavoro, e credo che invece si dividerà fra sperimentazioni pseudo-populistiche e movimentistiche, biliosi rancori ed opportunismi servili. E mi attendo quindi la fine del processo attuale di estinzione completa. Spero di essere smentito dai fatti.