Se dovunque c'è stato lavoro industriale esiste una canzone operaia, come nel caso dei canti operai torinesi, non parrà strano che essa si sia manifestata in modo più evidente che altrove in Gran Bretagna, la «grande madre» della moderna industrial song: l'Inghilterra del nord, infatti, il «terreno classico» della rivoluzione industriale nelle parole di Engels, fu il luogo d'origine del capitalismo moderno e della nascita di una classe operaia che assumeva tratti specifici e peculiari. Canzoni che seguirono di pari passo la formazione della classe operaia anglosassone sono presenti dunque fin dall'inizio della sua storia, da quando cioè il regime della fabbrica e del lavoro salariato impose la duplice scansione tempo di lavoro/tempo libero e le comunità dei lavoratori cominciarono a elaborare una propria cultura popolare, fatta di società di mutuo soccorso ma anche di circoli di lettura, filodrammatiche, cori, bande musicali e «Music Hall» in un intreccio di attività amatoriali e professionismo non sempre facilmente districabile.
Ballate e canzoni popolari legate alla rivoluzione industriale e stampate su fogli volanti (i cosiddetti broadsides, del tutto simili a quelli pubblicati in queste pagine) accompagnarono lo sviluppo del settore tessile, la crisi seguita alle guerre napoleoniche e la crescita del movimento cartista, mentre il poeta Percy Bisshe Shelley scriveva dall'Italia The Mask of Anarchy, ispirato dal massacro di Peterloo avvenuto nel 1819, quando una carica di soldati a cavallo uccise undici persone durante una grande manifestazione convocata per chiedere riforme parlamentari.
Un repertorio particolarmente interessante della canzone operaia britannica è decisamente quello legato alle rivolte dei luddisti, il movimento popolare che si opponeva, con la distruzione delle macchine, alla dequalificazione dei modi tradizionali di lavoro dei tessuti dovuta alle prime forme di produzione di massa (e che non fu dunque, come comunemente si crede, una cieca e irrazionale forma di protesta contro il progresso). Con una strategia che si potrebbe quasi definire «situazionista», i luddisti, spesso mascherati, si muovevano tra i villaggi, di notte e con l'appoggio della popolazione locale, per compiere operazioni di sabotaggio e di danneggiamento e le ballate anonime che uscirono in quel periodo parlavano di un misterioso «Generale Ludd» che guidava i ribelli: si trattava, nella realtà, di un nome collettivo e fittizio, utilizzato per confondere e sbeffeggiare l'avversario ma, anche, per lasciare nell'anonimato e proteggere i capi di ogni singola banda; una sorta di «Luther Blissett» ante litteram, insomma. Le canzoni che celebrarono le gesta del generale Ludd conferirono a questo personaggio una vera e propria fisionomia mitica, ma è pur vero che la dimensione del mito non era certamente estranea al folklore industriale inglese, come prova la diffusione, sotto vari nomi, del Big Hewer, quel «grande minatore» dalle proporzioni di un gigante rabelaisiano, e dotato di uguale fame e forza, che fu il protagonista di una serie di leggende e di racconti popolari.
Un altro repertorio di grande forza espressiva dell'industria song è quello degli shanties, i canti di lavoro utilizzati sulle navi per coordinare i movimenti tra il caposquadra e i marinai allo scopo di effettuare operazioni come il ripiegamento delle vele o il tiro dell'ancora; proprio perché nati per tali operazioni, gli shanties presentano particolari caratteristiche come l'uso dello scat, per esempio, e cioè di una sillabazione priva di senso usata in funzione esclusivamente ritmica, o di melodie di piccola estensione che tendono a tornare subito al tono di base (oltre che, naturalmente, espressioni formalizzate e un notevole grado di improvvisazione).
Un altro repertorio importante, infine, riguarda gli immigrati irlandesi: impiegati in massa come manodopera per la costruzione di strade ferrate e canali, stipati in quartieri malsani in condizioni simili a quelle che saranno poi riservate, quasi cento anni dopo, ai meridionali italiani durante il boom economico italiano (e con i quali ebbero in comune anche l'estraneità all'ambiente locale e l'emarginazione di cui erano oggetto), gli irlandesi portarono con sé un'enorme quantità di street-ballad e altre ne crearono: queste «canzoni di strada», e il loro linguaggio, influenzarono la produzione inglese e in parte con essa si confusero, a cominciare da quella formula di apertura, «come-all-ye», che divenne poi quasi uno standard della ballata industriale anglosassone.
La canzone operaia inglese visse una sua seconda stagione nel folk music revivaldegli anni Sessanta del secolo scorso, allorché venne riscoperta (secondo i detrattori «inventata», cioè manipo lata e travisata) da personaggi co me A. L. Lloyd e Ewan MacColl, entrambi studiosi e performer, che con il loro successo imposero un taglio fortemente militante alla riscoperta della musica popolare delle isole britanniche in polemica con il dilagare del rock. Lloyd e MacColl recuperarono e riproposero canti di minatori e pescatori, tessitori e marinai forgiando il concetto di «canzone industriale» (emblematico il titolo di un album: The Iron Muse, «la musa d'acciaio») come evoluzione delle classiche ballate e folk song, rurali o cittadine che fossero. MacColl, insieme a Peggy Seeger e al regista Charles Parker, concepì poi otto programmi radiofonici di grande successo, le Radio Ballads, dedicate alle diverse sottoculture britanniche tra le quali figuravano anche quelle incentrate su alcune comunità operaie (la terza, Singing the Fishing sui pescatori dell'East Anglia, vinse anche il prestigioso Prix Italia nel 1960 e fu trasmessa in quasi cento paesi). Quest'anno, a ottobre, ricorre il ventennale della morte di Ewan MacColl e una serie di iniziative sono già in programma in Inghilterra: ne riparleremo.
“alias il manifesto”, 16 maggio 2009