Il Concordato del 1855 tra Pio IX e Francesco Giuseppe I (Luigi Urettini)

Pio IX
Pubblico qui dal sito “cattolicesimo reale”, a lungo curato da Walter Peruzzi e dopo la sua morte purtroppo destrutturato, questo saggio inedito dello storico Luigi Urettini sul concordato firmato a metà Ottocento fra l’ultimo papa re e l’imperatore d’Austria. È un utile contributo alla comprensione del clericalismo veneto degli ultimi 150 anni. (S.L.L.)
L'inperatore Francesco Giuseppe 
Ippolito Nievo nella lettera semiseria inviata al suo amico Arnaldo Fusinato (Mantova, 2 dicembre 1855) commenta, con un’ironia frammista ad amarezza, il Concordato tra la Chiesa cattolica e l’Impero Asburgico pubblicato nella “Gazzetta Uffiziale di Venezia” del 16 novembre (vedi): “A proposito di commedia, che ti pare del Concordato? – Come al capo d’anno 1855 hai fatto un tuo programma politico, così mi sembra che a quello del ’56 andrebbe opportunissimo un Credo religioso; purché la Compagnia delle Assicurazioni garantisca l’anima tua dalla scomunica e il corpo dalla tortura – Io penso di tornare daccapo a mirare ad un Canonicato. – Il pulce si salvò dai morsi del leone precisamente framezzo alle gengive.” (1)
In effetti, il Concordato del 1855 segna la fine dell’indirizzo giusnaturalistico che aveva ispirato la politica ecclesiastica dell’Austria sin dai tempi dell’imperatore Giuseppe II (1780-1790), con l’affermazione della supremazia dell’autorità regia sulla Chiesa, per un ritorno dell’influenza di quest’ultima sullo Stato.
Ne è ben consapevole Arturo Carlo Jemolo che ne analizza criticamente i vari articoli: “Riconosceva il primato di onore e di giurisdizione spettante al Papa per diritto divino in tutta la Chiesa; e ne traeva come conseguenza la libertà assoluta di comunicazione dei vescovi, del clero e del popolo con la Santa Sede, nelle cose spirituali e negli affari ecclesiastici. Del pari, era assicurata ai vescovi libera comunicazione col clero e col popolo per il ministero dell’ufficio pastorale; libertà ai vescovi di costituire vicari, di ordinare chierici, di erigere benefici minori, e, d’accordo col governo, specie per ciò che concerneva il conveniente assegno di rendita, d’istruire parrocchie, dividerle, riunirle; di stabilire preghiere, di disporre processioni, di convocare concilii e pubblicare gli atti.”
Veniva sancita ufficialmente l’influenza della Chiesa sulla scuola statale: “L’istruzione della gioventù cattolica, nelle scuole pubbliche e private, sarebbe stata non aliena dalla dottrina cattolica; i vescovi avrebbero sorvegliato all’uopo, e diretta poi l’educazione religiosa; nessuno avrebbe potuto insegnare in istituti pubblici o privati teologia o catechismo, se non con incarico del vescovo, da questo revocabile. Nelle scuole medie destinate ai cattolici, solo dei cattolici avrebbero potuto essere nominati professori. Tutti i maestri delle scuole elementari destinate ai cattolici sarebbero stati soggetti all’ispezione ecclesiastica di ispettori nominati dall’imperatore tra persone proposte dal vescovo”.
I censori ecclesiastici avevano il diritto di giudicare sulla “liceità” dei libri ed eventualmente ordinarne il sequestro: “Gli ordinari avrebbero avuto piena libertà di lettura; ma anche il governo prometteva di usare gli opportuni rimedi perché tali libri non venissero divulgati.”
I tribunali ecclesiastici vedono rafforzate le loro competenze: “Le cause ecclesiastiche, e così quelle matrimoniali, sarebbero state di competenza dei tribunali ecclesiastici: il giudice statale avrebbe solo deciso degli effetti civili del matrimonio; riguardo agli sponsali, l’autorità ecclesiastica avrebbe giudicato della loro esistenza, e degli effetti ostativi ad altro matrimonio; riguardo al patronato, il giudice laico poteva solo decidere le cause sulla successione nel patronato laicale”.
Si rinsalda la catena gerarchica della Chiesa, in particolare dei vescovi verso i preti loro sottostanti: “Liberi i vescovi di applicare censure, e di punire gli ecclesiastici anche con la detenzione in monasteri, seminari, od apposite case.”
“L’imperatore prometteva di non soffrire che la Chiesa e le sue istituzioni fossero vilipese con parole, con fatti o con scritti, e di prestare aiuto efficace ai vescovi perché fossero recate ad effetto le sentenze da loro emanate contro ecclesiastici immemori dei loro doveri”.
L’imperatore continuava ad esercitare una certa autorità sulla nomina dei vescovi, che dovevano giurargli fedeltà: “La Santa Sede avrebbe potuto erigere nuove diocesi, però procedendo d’accordo con l’imperatore. Questi avrebbe continuato a presentare o nominare i vescovi da istituirsi canonicamente dal Papa, prendendo però anzitutto consiglio dai vescovi comprovinciali. I vescovi alla loro nomina avrebbero prestato giuramento di obbedienza e fedeltà al sovrano.”
“Il modo con cui l’opinione liberale pubblica europea – conclude Jemolo (2) – senza eccezioni giudicò il Concordato, qualificato come abdicazione dello Stato alla Chiesa, era sufficiente a mostrare quale vittoria esso costituisse per Roma.”
Eppure, non tutti all’interno del mondo cattolico erano soddisfatti; alcuni rintracciavano anche nel nuovo Concordato tracce dell’antico giuseppinismo della Casa d’Austria.
E’ questo l’autorevole parere dell’abate Giambattista Pertile, professore di diritto ecclesiastico presso l’università di Padova, che nelle sue lezioni universitarie, pubblicate negli anni 1861-62, sottopone ad una serrata critica il testo del Concordato.
Le sue tesi vengono illustrate da Angelo Gambasin nel suo studio Il clero padovano e la dominazione austriaca: “Era pure evidente, secondo il Pertile, la volontà degli Asburgo di riservare alla chiesa cattolica, pur non essendo proclamata religione di stato, una posizione di privilegio fra tutte le confessioni religiose (art. I). Il concordato, oltre al riconoscimento dei privilegi papali (art. II), concedeva ai vescovi larga autonomia nel governo delle diocesi (art. IV) e numerose esenzioni alle corporazioni ecclesiastiche. Dal concordato si poteva dedurre che lo stesso lealismo politico doveva commisurarsi sul lealismo religioso (art. XVI). Ma anche sul piano dei principi, secondo il Pertile, il virus giuseppinista intaccava alle radici questo apparato di privilegi e di diritti, giustificando e consolidando, perciò, una prassi burocratica da lunga data in uso negli organi dello stato.” (3)
Entusiasta del nuovo Concordato si dichiarava invece la rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica” che non esita a indicarne il carattere “portentoso”, mettendolo in relazione con la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, solennemente annunciato nella Basilica Laterana da Pio IX l’otto dicembre 1854:
“Niuno può negare questo Concordato aver del mirabile, del portentoso nell’epoca in cui viviamo, e questo portento essersi operato in quell’anno appunto in cui la Vergine fu riverita Immacolata per quanto si stendono i due emisferi. Agli inni di quella Vergine fece mirabile accompagnamento l’incioccar delle catene che si spezzarono: e mentre il concistoro dal Vaticano annunziava alla Chiesa la lieta novella di sua libertà, rispondeva dalla Basilica Laterana un immenso popolo inneggiando alla Vergine Immacolata.” (Il Concordato e l’Immacolata, in “La Civiltà Cattolica”, serie II, vol. XII, anno VI, p. 552)
Per la rivista dei gesuiti il nuovo Concordato ha un’importanza storica perché segna la sconfitta delle pretese regaliste dei vari monarchi contro i “sacri diritti” della Chiesa: “L’imperatore Francesco Giuseppe insegna col fatto ai Monarchi della terra come debbano comportarsi colla Chiesa di Cristo, come debban professare la pietà conveniente ad un Principe, e dissipa col suo luminoso esempio molte di quelle ombre di cui l’animo loro era forse ingombrato. E tanto più è valevole l’esempio suo, in quanto che fu l’Austria principalmente, che nei tempi di Giuseppe II con indebite invasioni dei diritti sacri della Chiesa offuscò la mente di altri potentati europei e ne aguzzò l’appetito. D’onde adunque trasse origine il male, è giusto che derivi a medicina; e chi fu seguace nella prevaricazione è ragionevole che or imiti l’ammenda”. (Il Concordato secondo i Cattolici, in“La Civiltà Cattolica”, serie III, vol. I, anno VII, pp. 172-173)
La restaurazione dell’unione “Trono-Altare” è necessaria anche alle monarchie europee perché, come sottolinea l’articolo: “La ribellione adunque degli Stati all’autorità della Chiesa dovea infallibilmente partorire la ribellione de’ popoli all’autorità dello Stato. Tal è la legge inesorabile della logica.”
L’ammonimento era rivolto in particolare al regno di Piemonte e alla politica regalista del Cavour che voleva liberare lo Stato sabaudo dalle pastoie clericali.
Sviluppando la legislazione voluta dal guardasigilli Giuseppe Siccardi (1850) che aveva abolito i privilegi del foro ecclesiastico, Cavour propone, proprio nel 1855, l’abolizione degli ordini monastici contemplativi e l’incameramento dei loro beni, attirandosi le ire del partito dei cattolici.
Costoro cercano di fare pressione su Vittorio Emanuele II perché non firmi la legge, proclamando essere causati dalla “giustizia divina” alcuni gravi lutti familiari che lo avevano colpito; in poche settimane gli muoiono la madre, la moglie, e un fratello.
Malgrado questa campagna terroristica, alla quale collabora lo stesso don Giovanni Bosco, il 29 maggio la legge così fermamente voluta da Cavour viene approvata dal senato e controfirmata dal re.
Il 26 luglio Pio IX con l’allocuzione Cum saepe commina la scomunica maggiore, quella che può essere tolta soltanto dal papa, a quanti avevano proposto, approvato e sanzionato la legge.
La restaurazione del binomio “ Trono-Altare” voluta dal Concordato del 1855 provoca a Venezia un incidente clamoroso nel 1863, in seguito alla condanna del libro di Ernest Renan, Vita di Gesù.
Il patriarca Luigi Trevisanato pubblica una pastorale contro il “pestifero libro”, un “vero Anticristo”, e indice “nella basilica di San Marco, un solenne triduo onde paralizzare in qualche modo gli effetti di questa perniciosissima opera. Ed a conclusione di esso ne fu persino bruciata una copia nel Campo San Zulian, ma senza perturbazione della pubblica tranquillità.” (4)
Non deve quindi suscitare meraviglia se anche un veneziano moderato come Emanuele Cicogna mostrava la sua insofferenza per l’invadenza del clero: “I preti avevano così stese le ale che vorrebbero subissar tutti e porsi sotto i piedi lo stesso Impero.” (5)
Le conseguenze maggiori del Concordato si ebbero tuttavia nelle campagne del Lombardo-Veneto a causa delle norme che vincolavano in una rigida disciplina gerarchica i parroci ai loro vescovi e costoro all’autorità del papa.
Viene così ricomposta quella frattura tra alto e basso clero che aveva permesso a quest’ultimo di avere una certa autonomia nell’esercizio del suo apostolato.
I parroci diventano ora strumento di consenso dell’Austria nelle campagne, identificando il vero nemico nei liberali “senza dio”.
Ippolito Nievo ne coglie con lucidità le gravi conseguenze per le sorti dell’Italia, condannando nel contempo l’anticlericalismo dei liberali, nel suo saggio Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale (6), scritto a Fossato nel Mantovano, dove si era rifugiato, sconsolato, dopo l’armistizio di Villafranca che aveva lasciato il Veneto all’Austria:
“Il clero campagnolo stava in mezzo fra nemici dichiarati e amici fraudolenti e venali; titubò, patteggiò, si divise – e fu suo merito. In altri paesi, con tempra diversa, e senza il buon senso comune degli Italiani, si sarebbe gettato interamente dal lato dei Vescovi, della tirannia, del gesuitismo. […] Il Governo Austriaco seppe giovarsi di cotali condizioni indotte nella nostra società da un falso zelo filosofico dei liberali. Conobbe che il clero campagnolo era astretto a far causa comune col suo nemico naturale, col clero prelatizio; si appoggiò a questo e lo favorì col concordato, persuaso che la comunanza di interessi lo avrebbe indotto ad usare a suo profitto la rinata influenza sul secondo. Infatti si vide allora lo strano tentativo di convertire i Parrochi in commissari di Polizia; né io vorrò certo scusare quei preti vigliacchi e venali che accondiscesero a questo vitupero del sacerdozio. Ma i liberali non furono meno rei di vedere in questa ignominia sola colpa altrui, sorpassando affatto ai propri eccessi che le avevano spianate”.
Il Nievo continua la sua analisi denunciando la politica di divisione tra clero rurale, contadini e proprietari terrieri liberali condotta dall’Austria: “Mentre il Governo si serviva di questo mezzo e della forza corruttrice dell’aristocrazia ecclesiastica per pervertire il clero rurale e le opinioni del loro popolo, l’aggravio straordinario delle imposte prediali cooperava in altro ordine di fatti a questo stesso fine. Probabilmente De Bruke sapeva il doppio utile che rendeva al Governo quella misura finanziaria. Sapeva che l’impoverimento dei possidenti avrebbe reso sempre più difficili i rapporti fra essi e i contadini; questi sempre più nemici di quelli, e perciò più amici a sé o meno nemici che altrimenti non sarebbero stati. Da ciò cresciute le furie dei liberali giustissime contro il dispotismo oppressore, ingiuste contro i contadini oppressi del pari, ma incitati da quell’indiretta oppressione a più fiero antagonismo contro gli oppressori immediati.”
Il Nievo conclude la sua analisi ricordando il pericolo degli “orrori della Galizia”. La regione dell’attuale Ucraina nella quale negli anni 1850- 1853 la monarchia asburgica favorì le sanguinose ribellioni dei contadini ruteni, ancora oppressi da rapporti feudali, contro i loro padroni, i nobili polacchi nazionalisti e antiaustriaci.
Furono compiuti spaventosi massacri e violenze inaudite, non solo contro i signori feudali ma anche contro la popolazione ebraica, vittima dell’atavico antisemitismo degli ucraini.
Questa strumentalizzazione in senso reazionario delle rivendicazioni dei contadini ruteni impressionò molti pensatori politici europei.
Lo stesso Karl Marx in una lettera a Weydemeyer dell’undici settembre 1851, analizzando la “questione italiana”, prospetta il pericolo di una “soluzione galiziana”: “Temo molto che il governo austriaco, in caso di estrema necessità, modificherà perfino la condizione della proprietà in Italia nel senso già fatto in Galizia.” (7)
Il Nievo arriva alla stessa conclusione: “Quando nelle ultime strette dell’agonia il dispotismo Austriaco mostrava ai campagnoli nell’avarizia dei ricchi la sola causa della loro miseria e li incitava a vendicarsene, quali altri motivi si potrebbero trovare alla loro moderazione?… Ammirate i nostri contadini se non si rinnovarono in Italia gli orrori della Galizia.” (8)
Il Concordato del 1855 tra la Chiesa di Roma e l’Impero Austriaco non dura molto nelle provincie italiane. Con la pace di Villafranca (11 luglio 1859) la Lombardia entra a far parte del Regno di Piemonte. E finalmente con la pace di Vienna (3 ottobre 1866) anche il Veneto entra nel Regno d’Italia.
La sua influenza nei confronti del clero, particolarmente veneto, è tuttavia di lungo periodo e si protrae per tutto l’ottocento, sino al primo quindicennio del novecento.
E’ un clero intransigente che, in nome dei diritti del Papa-Re conculcati con la Breccia di Porta Pia, mal sopporta il nuovo Regno d’Italia, liberale e laico.
Il suo ideale è il motto fatto proprio da Pio X, il papa veneto (1835) educato sotto l’Austria, Instaurare omnia in Christo, in una visione integralista della società che veda lo Stato al servizio della Chiesa. Per questo cerca di servirsi delle masse contadine, ancora una volta strumentalizzate in senso reazionario.
Ben lo aveva compreso don Romolo Murri, il prete modernista scomunicato da Pio X, che, riflettendo in tarda età sulla fondazione della prima democrazia cristiana, inizio novecento, (ben diversa da quella del dopoguerra) scrive: “ Tenacemente refrattario alla democrazia cristiana, fra le regioni italiane, fu solo il Veneto. Essa vi ebbe assertori generosi e piccoli gruppi fiorenti nelle città, ma non poté far breccia nelle organizzazioni ufficiali e nel clero minore, stretto da una ferrea disciplina. E tutta la campagna contro la D. C. fu cosa essenzialmente veneta: strano fenomeno di regionalismo. Veneto era il Toniolo; veneti il Paganuzzi e i suoi immediati collaboratori; veneti il Saccardo, direttore del giornale “La Difesa” di Venezia (e già lo stesso titolo è significativo) e il Sacchetti, direttore per molti anni dell’ “Unità Cattolica” di Firenze; veneti i fratelli sacerdoti Scotton che da Breganze, con la loro “Riscossa”, fulminavano settimanalmente, con i più astiosi e tristi metodi di polemica, i D. C. ; veneti i vescovi che più si distinsero nella ostilità e nelle condanne; come vedremo; veneto infine, e sopra tutti, il cardinale Sarto, poi Pio X, e veneta la piccola corte personale che egli portò con sé in Vaticano.”
Don Romolo Murri riconduce la mentalità tradizionalista e integralista del clero veneto all’educazione autoritaria e gerarchica ricevuta in epoca austriaca:
“Ora il Veneto cattolico, eccezion fatta per Rosmini, che di troppo superava con il potentissimo ingegno e con l’animo, ogni angusto particolarismo, non era mai entrato nello spirito dei cattolici del risorgimento: e nel periodo che cade sotto il nostro esame, esso, soprattutto, rappresentò l’antirisorgimento. Austriaco era il loro modo di intendere l’autorità, svoltosi in un clima di perfetto accordo fra l’autorità ecclesiastica e la civile, e di docile supina accettazione dell’autorità da parte dei sudditi: austriaca la loro inettitudine a trasferirsi sul terreno della libertà. E l’Austria, con il veto posto nel conclave del settembre 1903 alla candidatura del card. Rampolla, decise della elezione del Sarto e la improntò del suo sigillo.” (9)

NOTE
1 – Tutte le opere di Ippolito Nievo. Vol. VI, Lettere – a cura di Marcella Gorra, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1981, p. 365.
2 – ARTURO CARLO JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1952, pp. 174-176.
3 – ANGELO GAMBASIN, Il clero padovano e la dominazione austriaca (1859 –1866), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1967, pp. 19-23.
4 – LETTERIO BRIGUGLIO, Lo spirito religioso nel Veneto durante la Terza Dominazione Austriaca (Fortuna di Ernesto Renan), in “Rassegna storica del Risorgimento”, anno XLII – fascicolo I – gennaio-marzo 1955, Istituto Poligrafico dello Stato – Libreria dello Stato, Roma, 1955, pp. 25-26.
5 – PIERO DEL NEGRO, Il 1848 e dopo, in Storia di Venezia – L’Ottocento e il Novecento, a cura di Mario Isnenghi e Stuart Woolf, Istituto della Enciclopedia Italiana, Fondata da Giovanni Treccani, Roma 2002, voll. 13, vol. X, p. 172.
6 – Il saggio rimarrà inedito per molti anni. Solo nel 1929 verrà pubblicato da Riccardo Bacchelli con il titolo Frammento sulla rivoluzione nazionale. Nell’edizione critica curata nel 1987 per la Liviana (Padova) Marcella Gorra ha proposto di intitolare il saggio, “in base a suggerimenti che provengono dal testo stesso, e del reperimento di una carta autografa collaterale”, Rivoluzione Politica e Rivoluzione Nazionale.
7 – KARL MARX FRIEDRICH ENGELS, Sul Risorgimento italiano, prefazione di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 26.
8 – IPPOLITO NIEVO, Rivoluzione politica e Rivoluzione Nazionale, a cura di Marcella Gorra, Istituto Editoriale Veneto Friulano, Udine, 1994, pp. 108-109.

9 – ROMOLO MURRI, Democrazia Cristiana, Roma, 1945, pp. 54-55

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