L’ASIENTONEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
di
Norberto Fragiacomo
Ho letto, di recente, un agile e appassionante libro di Ryszard Kapuściński, scritto nel 1976 e dedicato all’ormai dimenticata guerra in Angola, che il grande reporter polacco raccontò per la PAP. Si intitola Ancora un giorno, ed è molto più di una cronaca: le pagine traboccano di odori, suoni, afa, persone. Come d’abitudine, l’autore non si acquatta sullo sfondo: vive la Storia da protagonista, affrontando disagi e pericoli, e si concede il gusto della riflessione - mai banale, sempre intelligente (proprio perché il nostro è capace di intus legere).
Molte sue frasi si imprimono nella memoria, ma un passaggio in particolare mi ha incuriosito: non perché sia più profondo, suggestivo o commovente di altri, semplicemente perché misura l’abisso temporale che ci separa dal 1975 (che in fondo è l’altro ieri: il sottoscritto aveva tre anni, allora).
Annota Kapuściński, a pagina 100[1]: “Chi nasce oggi, tra venticinque anni vedrà il 2000. (…) Della razza bianca non resteranno che vestigia. Solo il tredici per cento degli abitanti della terra avrà la pelle bianca. Solo il due per cento saranno biondi naturali. I biondi: un fenomeno sempre più eccezionale, una vera rarità. Che cosa è meglio: pensare al futuro o non pensarci affatto?”
Lo scrittore non si straccia le vesti: fa una constatazione, venata – questo sì – di una malinconia tipicamente polacca. D’altra parte pan Ryszard era innamorato dell’Africa e degli africani ed era – almeno negli anni in cui pubblicò il libro – un comunista convinto, sincero assertore della fratellanza tra i popoli. Ciò non toglie che alcune parole qui riportate susciterebbero oggi uno scalpore e un’indignazione che, quattro decenni or sono, nessuno dei lettori si sognò di provare. “Razza bianca”!: come ha osato utilizzare un termine del genere, si sa che le razze non esistono, che siamo tutti uguali… uno che parla di razza bianca è evidentemente un razzista! – concluderebbero i portabandiera della sinistra liberista e della sinistra-sinistra, per una volta (una sola volta?) concordi. Il recente pubblico linciaggio della deputata dem Prestipino avvalora il mio assunto: è vero che la parlamentare ha parlato di “razza italiana” (che esisteva solo per Preziosi e i propagandisti littori…), ma il concetto, pur vago, di razza bianca suonerebbe oggidì ancor più intollerabile a certi orecchi. Siamo di fronte a un autentico tabù, costruito in pochi decenni. Il riferimento ai capelli biondi, poi, verrebbe giudicato un affronto, una provocazione: razzismo puro, se non nazismo dissimulato. L’ho sperimentato su Facebook: il mero accenno alla diffusione fra i soli popoli di origine europea di iridi azzurre, grigie e verdi è stato interpretato da certa utenza come una confessione di disprezzo (razziale?) verso chi ha gli occhi scuri.
Ai guardiani del politicamente corretto non importa se e quando gli europei e gli occhi chiari spariranno fisicamente: cioè che conta è che idee come “differenza” ed “europei” (sono solo due esempi) scompaiano definitivamente dalle coscienze. Perché? Perché l’omologazione deve aver luogo anzitutto nelle menti: capture their mind… Bisogna riconoscere che l’indottrinamento sta funzionando: chiunque di questi tempi si azzardi a pronunciare, anche per sbaglio, il vocabolo razza viene immediatamente gelato da una battuta di Einstein. Se lo dice Einstein… anche la garbata presa in giro di un funzionario dell’immigrazione troppo solerte può innalzarsi a verità assoluta, incontestabile. Visto che gli esseri umani appartengono all’unica specie del genere Homo, le “razze” non possono esistere: coloro che stesero l’articolo 3 della nostra Costituzione (guarda caso, quello dove si parla di uguaglianza formale e sostanziale, entrambe oramai evanescenti) vanno dunque severamente biasimati. Un simile rimprovero andrebbe però rivolto anche ai cinofili: il cane domestico (Canis canis) appartiene come noialtri a un unico genere e a un’unica specie, pertanto se qualcuno vi chiede di che razza sia il vostro cane, coerenza vuole che rispondiate, offesi: canina! Insomma: chi afferma di possedere un levriero o un cocker è un potenziale razzista.
Ovviamente le c.d. razze esistono, indipendentemente dall’indiscussa appartenenza degli uomini a un’unica species, e sono caratterizzate ciascuna da peculiarità fisiche e comportamentali attestate nella generalità (non nella totalità!) degli individui. Queste differenziazioni sono il prodotto dell’adattamento all’ambiente (non ci hanno sempre insegnato che l’uomo è l’animale più adattabile?), ed interessano assai più l’etnologo che il naturalista. Mi si potrà obiettare che il termine razza è stato ostracizzato per nobilissime ragioni, cioè per estirpare il “razzismo” e le ideologie su di esso basate. D’accordo, ma le credenze razziste (cioè la convinzione che esistano popoli naturalmente superiori ed altri inferiori, e che i primi abbiano il sacrosanto diritto di servirsi dei secondi a piacimento[2]) sgorgano dall’animo umano, non dal vocabolario - cui semmai si aggrappano come l’edera si avvinghia all’albero, finendo per impoverirlo. In fondo, “razza” è una parola innocua e vilipesa in un mondo, l’attuale, in cui troppe sue consorelle – geneticamente modificate – diventano armi.
Le scomuniche di sapore “antirazzista” sono quindi destinate non tanto ai razzisti dichiarati (che, in fondo, fanno gioco al sistema), quanto a coloro che, valorizzando le diversità come fattori di arricchimento, esprimono dubbi sulla bontà di un progetto che mira a cancellarle in nome di una presunta eguaglianza, che è piuttosto una forma di omogeneizzazione coatta.
Ignobili finalità di dominio e sfruttamento si ammantano dell’ideologia del “politicamente corretto” che, sebbene abbracciata da larghi strati della sinistra (per così dire) ufficiale, è produzione sovrastrutturale del capitalismo odierno, del tutto funzionale ai suoi scopi[3]: la messa al bando, in Occidente, di simbologie tradizionali e festività religiose va inquadrata in un vasto disegno di sradicamento delle popolazioni e desertificazione culturale dei territori, in modo da creare un “uomo nuovo” cui è stato tolto tutto (passato, diritti, conoscenza, persino il sesso, sostituito dal concetto artificiale di gender/genere) ma non – naturalmente – la possibilità di recarsi al “mercato” per adorarvi l’omonimo dio.
La percepibile diffidenza nei confronti dei colori chiari (di pelle, occhi e capigliatura), spudorate eccezioni alla regola dell’uniformità a tutti i costi, si inserisce appieno in questa logica. Riflettete: oggigiorno va di moda esaltare (giustamente) la prestanza fisica degli atleti di colore, e manifestare predilezione per le tinte scure è considerato politicamente correttissimo; al contrario, dichiararsi attratti da carnagioni e caratteristiche nordiche espone a larvati sospetti di razzismo. Tutta colpa di Hitler (che peraltro era bruno e di statura media), chioserà qualcuno. Può darsi, ma questa tendenza, anzi: questo riflesso pavloviano è stato inculcato nelle persone molti lustri dopo la caduta del Reich decennale, e si pone in netta antitesi rispetto a una tradizione culturale che affonda le sue radici nella storia e nell’epos europei. Qualche esempio: i principi e gli eroi achei cantati da Omero, Achille in primis, sono invariabilmente alti e biondi, gli occhi degli dei greci sono azzurri… epica razzista? Evidentemente no, perché i nemici asiatici – i troiani: mori – sono tenuti dal poeta in gran conto, benché siano destinati alla sconfitta. Circa mille anni dopo, Lucio Cornelio Silla interpretò come un segno divino (a lui favorevole) il fatto di essere biondo, cioè “bello”: che si trattasse di un personaggio spietato è indiscutibile, ma che disprezzasse i popoli asiatici con cui venne in contatto non risulta. Proto-nazisti anche i fiorentini medievali che, secondo le cronache del tempo, accolgono con ammirazione i cavalieri germanici – maestosi, di bell’aspetto e biondi – che, al seguito di qualche imperatore, transitano per le vie cittadine? Se così fosse, l’accusa andrebbe estesa a padre Dante, che descrive lo sventurato Manfredi come biondo, bello e di gentile aspetto (praticamente un’endiadi). Tralasciamo le suggestioni provenienti dall’antica poesia scandinavo-germanica, che agli empi e sfortunati sovrani burgundi affibbia capelli neri (in contrapposizione alla solarità di Sigfrido, l’eroe dal cuore puro), per passare direttamente alle diffusione, già in ambito medievale, di una nuova immagine del Cristo, che inizia a sfoggiare poco plausibili chiome dorate e occhi cerulei. Tutto ciò col razzismo non c’entra nulla, se non altro perché quest’aberrazione è figlia dell’Ottocento: si tratta semplicemente di un aspetto dell’immaginario europeo, che associa le tinte chiare e vivaci alla luce (idest al bene, alla nobiltà d'animo e di lignaggio), quelle opache all’oscurità[4].
Così è stato per secoli... ma il suddito di domani sarà invariabilmente bruno, per cui è opportuno ribaltare la dicotomia con continui messaggi a livello del subcosciente: un gocciolio ininterrotto scava la pietra più dura, e se i nostri discendenti non saranno più in grado di figurarsi Achille o Silla poco male… tanto nelle “scuole” saranno addestrati a fare ben altro. In quel futuro dell’Europa residuerà solamente un nome stampato sulle pagine in disfacimento di volumi condannati al macero.
Il “politicamente corretto” si sta rivelando un efficacissimo strumento per rimodellare le nostre società secondo i desideri dell’elite. Per intorbidare il reale si serve di termini/formule senza senso (pensiamo alla locuzione “diversamente abili”: lo siamo tutti, sì o no?), di neologismi superflui ma d’impatto (femminicidio, ad es.), di parole dal significato capovolto[5], di razzismo al contrario[6], di palesi mistificazioni, di un manicheismo indecente e, da ultimo, si esprime nello stomachevole “buonismo” che permea oggi la comunicazione. “Sono nostre vittime, accogliamoli tutti”, esorta il buonista di fronte all’esodo di migranti: ma è un buonismo a senso unico, che non si applica alle classi disagiate del c.d. Occidente (v. il caso Brexit e la colpevolizzazione del Popolo greco in blocco) o a chi si azzarda a protestare contro quella che ritiene, a ragione o a torto, un’invasione. Sarei tentato di dire (e, già che ci sono, lo dico!) che questa melassa dal retrogusto acido sta all’internazionalismo proletario, alla fratellanza socialista – che mai si è proposta di sopprimere l’identità dei singoli popoli/etnie – come le lusinghe di un consumato don Giovanni stanno al rapporto d’amore fra Romeo e Giulietta. Che oggi, lo ripeto, gran parte della “Sinistra radicale” si attenga scrupolosamente al galateo buonista prova che essa – anche quando si dimena e fa fuoco e fiamme – resta comunque all’interno del perimetro tracciato dal liberalcapistalismo: è un suo animale domestico.
Non casualmente ho fatto cenno ai migranti: si tratta, se non dell’emergenza più grave che dovremmo affrontare, di quella cui i media danno maggiore enfasi. Il caso, esploso in questi giorni, della Jugend Rettet riporta in primo piano la questione delle ONG, sollevata alcuni mesi fa dal procuratore di Catania Zuccaro. Di fronte a ipotesi – cautamente formulate dal magistrato, e poi da altri - di “intelligenza” con gli scafisti (che nel caso della Juventa sembrerebbe provata) mezza sinistra aveva ostentato indignazione e sbandierato il proprio appoggio acritico ad organizzazioni sante a prescindere; altri sostenitori, più sottili nel loro ragionare, avevano sentenziato che è inverosimile che una ONG sia “complice” degli scafisti. In effetti, l’inverosimiglianza di tale ricostruzione aveva acquietato l’opinione pubblica, convincendola che quelle sulle organizzazioni non governative fossero soltanto voci calunniose: ancora una volta siamo di fronte ad un capovolgimento di prospettiva attuato ad arte. Non ha realizzato nessuno che la vicenda poteva essere letta anche al contrario, cioè ipotizzando che fossero gli scafisti ad essere complici delle ONG?
Certo, si tratterebbe di un’interpretazione assai più inquietante, ma molto meno strampalata della precedente… per darle corpo toccherebbe però individuare il movente delle organizzazioni ovvero, come si ripete in questo torrido fine settimana d’agosto con riferimento alla Jugend Rettet, il loro “fine ideologico”.
Nel suo Ancora un giorno Kapuściński ci ricorda qualcosa che vorremmo rimuovere, e che tantissimi semplicemente non sanno: tra la fine del XV e il XVIII secolo intere regioni africane sono state letteralmente spopolate dai bianchi, a caccia di schiavi da spedire soprattutto nelle Americhe. La più grande tratta di uomini, donne e bambini mai vista sulla terra (e sui mari) è passata alla Storia sotto il nome di Asiento. Raramente però i futuri schiavi venivano catturati all’interno dell’Africa da spagnoli e portoghesi: a consegnarli ai bianchi, previo versamento di un prezzo, erano quasi sempre capitribù e mercanti africani (talvolta arabi). Dopo la consegna venivano caricati sulle navi negriere e trasportati nel continente americano. La similitudine balza agli occhi, per cui pongo al lettore un’unica domanda: era l’europeo ad essere complice del capotribù che lo riforniva, o viceversa?
Le motivazioni economiche della tratta erano e sono evidenti: occorreva manodopera a bassissimo costo per miniere e piantagioni; inoltre, secondo gli spagnoli, i neri erano molto più resistenti alla fatica dei nativi americani, inizialmente impiegati nel lavoro coatto. Più resistenti, probabilmente… ma, di sicuro, a differenza dei secondi, del tutto spaesati in una terra che non conoscevano, quindi più docili e infinitamente più controllabili. Nel mio saggio L’ultima Carta contro la barbarie cito alcuni dati forniti dal compianto Tzvetan Todorov: nel corso del ‘500, sotto il tallone iberico, la popolazione indigena d’America passò da 80 a 10 milioni di individui. Fu un genocidio per certi versi programmato, cui seguì uno stravolgimento del quadro etnico, cioè un ricambio di popolazioni – quello stesso ricambio che paiono augurarsi per la nostra Europa personaggi indiscutibilmente buoni(sti) come il preteso filantropo George Soros[7] e la Presidente della Camera Laura Boldrini[8].
Siamo alle prese con un nuovo Asiento? A giudicare dalle dichiarazioni dei rappresentanti delle ONG parrebbe di no: descrivono un paese delle meraviglie, retto da solidarietà, altruismo e buoni sentimenti. Ci è stato insegnato, però, che verba volant: atteniamoci ai crudi fatti. L’esodo da quello che un tempo veniva definito Terzo Mondo sarebbe imputabile a guerre, fame e sovrappopolazione. Le guerre non mancano (ringraziamo gli Stati Uniti e i loro vassalli, Italia compresa), le carestie neppure, ma entrambi i fenomeni rappresentano una costante da ben prima che io nascessi: ricordo di aver assistito, da bimbo, a sconvolgenti documentari sulla fame in Etiopia. Eppure allora non ci furono ondate migratorie… accusiamo allora il riscaldamento globale, che in questi giorni sperimentiamo sulla nostra pelle, ma non prima di esserci posti una domanda: sicuri che l’esodo non sia in qualche maniera incentivato, che il desiderio di emigrare non sia istillato – o perlomeno rafforzato – da “agenti” presenti in loco? In fondo, le Open Societies del magnate George Soros sono attive anche in Africa e in Asia, e il nostro buon “filantropo” (philantropist sta scritto anche sulla tomba di Robert Owen, ma nell’800 le parole avevano ancora un significato…) si gloria di aver stanziato 500 milioni di dollari per soccorrere i migranti[9].
Mettiamola così: il ruolo dei vecchi capitribù è stato assunto da cacciatori di teste meno brutali e più suadenti, oltre che da scafisti che trasportano la “merce” via terra e via mare. E le navi negriere? Non attraccano più al porto, ma aspettano il carico a poche miglia dalla costa. Non ho elementi per affermare che tutte le ONG siano colluse, mi limito a interpretare ciò che sento e vedo. A quanto pare, l’inchiesta si sta estendendo a Medici senza frontiere: venerdì sera un rappresentante dell’organizzazione ha negato con sdegno, su La7, qualsiasi contatto col magnate Soros. Posso anche credergli, ma rilevo – dopo aver dato un’occhiata al sito internet della ONG – che il bilancio di quest’ultima è in costante crescita, e che fra i partner dichiarati figurano gruppi internazionali come American Express e IKEA. Ne saranno lieti, immagino, i dipendenti di quest’ultima società, trattati in maniera principesca, e i fornitori dell’area isontina… Il nome di Soros viene accostato anche a MOAS, che non pubblica i nomi dei finanziatori e – comunque – ha prontamente aderito al protocollo d’intesa ministeriale. Scomodare il filantropo per eccellenza è forse in questo caso inutile: alla guida della giovanissima ONG[10] c’è un finanziere americano di nome Christopher Catrambone, classe 1981, che dopo essersi rapidamente arricchito grazie alle assicurazioni ha d’improvviso scoperto di essere affetto da altruismo[11]. Lodevole, anche se gli affari conclusi in Iraq e Afghanistan e il fatto che la sua società Tangiers operi nel settore dell’intelligence[12] inducono a guardare con qualche sospetto questo “benefattore” e la sua bella moglie Regina. Che George (Premio Terzani, non dimentichiamolo!) abbia fatto scuola?
Naturalmente tutti costoro giurano che il loro scopo è salvare vite umane (pure i Conquistadores del ‘500 affermavano di voler convertire gli idolatri…): avessimo ancora cinque anni – quelli che dimostra certa “sinistra” – potremmo anche prestar loro fede. Modestamente però ritengo che il famoso fine ideologicosia un altro: quale?
Ho già trattato l’argomento ne L’ultima Carta contro la barbarie: rimpolpare l’esercito di riserva è oggi una priorità[13], ma non l’unica, anche perché quello di trovarsi un lavoro non sembra per molti migranti un imperativo categorico[14]. Un altro ruolo che potranno interpretare è quello dei capri espiatori (anziché contro chi li affama, le popolazioni autoctone si rivolteranno contro i nuovi venuti), ma c’è dell’altro, e a svelarcelo è la già menzionata madame Boldrini: il da lei auspicato afflusso di 3-400 mila migranti l’anno (si badi bene: nella sola Italia!) altererebbe, come mai è avvenuto in passato[15], la composizione etnica della penisola.
Il fine ideologico di Soros e dei suoi epigoni è dunque un gigantesco travaso/rimescolamento di popolazioni che, ibridandosi, darebbero vita a una razza umana effettivamente indifferenziata, senza radici né bussole per orientarsi: una manovalanza sovranazionale totalmente asservita ad un’elite anch’essa sovranazionale. La non-Europa che intendono costruire sarà una distesa di bidonville abitata da un’umanità abbrutita e priva di elementari diritti, che sprecherà il poco tempo libero a disposizione comprando prodotti superflui (dato che quelli necessari non saranno disponibili), guardata a vista da polizie private che faranno capo a un’aristocrazia finanziaria asserragliata in ville murate. Può darsi che, per distinguersi da masse cenciose, debilitate e spremute, gli ottimati di domani ricorreranno alle trovate della genetica[16], ma è aspetto di scarsa importanza: mi preme piuttosto rammentare alle anime belle diffuse nella sinistra italiana che è per questa oscena distopia che si stanno battendo, oltre che per il diritto delle nuove navi negriere a solcare trionfanti il mare.
Esiste un’alternativa a questo scenario apocalittico? Chi non è ubriaco di ideologie apprese dai bignami sa che la stragrande maggioranza degli esseri umani preferirebbe vivere e morire a casa propria, ma “aiutare a casa loro” africani, afghani, pakistani ecc. sarebbe un’opzione praticabile soltanto per un governo europeo socialista, cioè per un continente finalmente affrancatosi dalle velenose logiche del mercato. Ad oggi il famoso cambio di paradigma è utopia, fantapolitica.
Non mi dilungherò sul “che fare”: altri hanno proposto ricette intelligenti e argomentate, presto demolite a colpi di slogan d’accatto. Per chi non si rassegna forse un’alternativa c’è: il riscaldamento globale sta sciogliendo i ghiacci dell’immensa Groenlandia, restituendole quel colore verde che ispirò i vichinghi.
Potremmo trasferire là la vecchia Europa.
[1] Ed. Universale Economica Feltrinelli, 2008.
[2] Sebbene ci venga quotidianamente ripetuto il contrario, la semplice paura del “diverso” in quanto tale nulla ha a che vedere con il razzismo, sempre che non sfoci in un rabbioso e cosciente senso di superiorità.
[3] Non per caso il politically correct si afferma negli USA nell’ultimo quarto del XX secolo e di lì si diffonde nel mondo occidentale.
[4] Questa visione tradizionale, consolidatasi nei secoli, è mirabilmente ripresa e vivificata da J.R.R. Tolkien ne “Il Signore degli anelli”.
[5] Gli americani assediano dal mare la Corea del Nord, ma sono i lanci dissuasivi dei coreani ad essere etichettati come “provocazioni”.
[6] Mi riferisco, a titolo esemplificativo, al celebre caso di Fermo: con la fattiva complicità del PRC locale, gli esiti tragici di una lite fra balordi assursero a condanna senza appello di un’intera città.
[10] Fondata dopo il naufragio di Lampedusa.
[11] Duemila anni fa ci volle l’intervento miracoloso di un Dio per convertire un solo duro di cuore, oggigiorno sfruttatori e pescecani si convertono a frotte, senza manco bisogno di inviti dall’esterno: viviamo davvero nel migliore dei mondi possibili (anzi: in quello delle fiabe)!
[12] Non è un’illazione: a confessarcelo è lui stesso (http://ift.tt/2v9O3hX),/
[13] Che gente con contratti-immondizia possa un domani pagarci le pensioni è una barzelletta degna di Bramieri (che fa rima con Boeri), che l’assenza di pretese e aspettative di diritti piaccia al padronato è una certezza.
[14] L’impressione, del tutto soggettiva, è che molti di loro siano giovani avventurieri in cerca di “fortuna”, sedotti dalle sirene cui facevo cenno in precedenza (so già che quest’asserzione mi costerà qualche insulto, ma poco me ne cale: raglio d’asino non sale al cielo!).
[15] In epoche remote fummo invasi da Goti, Longobardi, Arabi, Normanni ecc., ma si trattava di relativamente pochi individui, che inizialmente fecero gruppo a sé e poi si fusero con le popolazioni locali. Padre Zanotelli, in tv, parlava di centinaia di milioni di persone pronte a partire dall’Africa: siamo alle prese con qualcosa di mai sperimentato prima.
[16] Dalla lettura di alcuni settimanali risulta che già da tempo, negli USA, famiglie benestanti “programmino” l’aspetto dei futuri figli, optando di solito – in barba al politically correct – per occhi celesti e capelli biondi.