L’ULTIMO INGRATO COMPITO
di
Norberto Fragiacomo
L’insolita calura di quella fine di maggio lo sfiancava facendolo sentire vecchissimo, e lo era: da un pezzo aveva oltrepassato la soglia delle settanta primavere. Gettò uno sguardo allucinato allo specchio, che accentuò la sua malinconia: nulla potevano gli impiastri contro le ulcere rosseggianti che gli deturpavano il viso. Le palpebre gonfie, le guance cascanti, il naso solcato da venuzze scure: era diventato un mostro, e come tale l’avrebbero ricordato – in saeclis saeclorum. E dire – pensò – che da giovane tutti lodavano la mia bellezza: una bellezza evidentemente effimera, fuggitiva, che di rado, peraltro, aveva fatto presa sulle donne. Non era mai piaciuto a nessuno, lui. Tetraggine, cupezza, misantropia: queste le accuse vecchie e nuove, come se un uomo fosse fatto di ferro, non celasse dentro il petto un cuore. Si accasciò sul triclinio, al centro dell’immensa sala luminosa. Solo il respiro delle guardie rompeva sommesso il silenzio. Sentiva ribollire le viscere, ma si sforzò di trattenere un peto: non si confaceva all’alto ufficio assunto tanti anni prima, quasi per forza. Troppe pupille lo osservavano. La sua vita era stata un susseguirsi di doveri e adempimenti: tolti questi e quelli, non gli rimaneva altro, se non spezzoni di ricordi. Il sorriso di una giovane innamorata, lo sguardo perso di un fratello agonizzante: isole sperdute in un mare di vuoto. Non si stese, restò seduto e afferrò con impeto rabbioso la coppa di vino, disdegnando il vassoio pieno di fichi al miele e le pietanze disseminate sul tavolino: bevve avidamente, come se la bevanda potesse restituirgli il vigore e le energie smarrite. Non poteva, ma se non altro lo intorpidiva un poco, lasciandogli purtroppo la mente lucida. Ne consumava troppo di vino rosso, e quell’abitudine – ereditata da Livia - gli era valsa soprannomi poco lusinghieri, ma non se ne curava: sapessero quel che provo davvero… Sapessero chi? Loro: i sudditi, gli ottimati, coloro che come moscerini impazziti gli sciamavano intorno. I cortigiani: quale orribile feccia! Giorni prima avevano organizzato una festa in suo onore: per compiacerlo avevano spinto fanciulli e fanciulle di nobile stirpe ad accoppiarsi dinanzi a lui. Aveva provato un’istantanea eccitazione (“anche i falsi dei copulavano – si era giustificato – e io non sono che un miserabile uomo”), che si era tosto mutata in disgusto e ripugnanza: disgusto di sé, ripugnanza per chi lo serviva senza manco sforzarsi di comprenderlo. Eppure non si era alzato, non era uscito, non aveva rimproverato nessuno: aveva vuotato coppe su coppe, perdendosi nelle sue amare fantasie, figurandosi di essere solo. Tra i tanti vizi mi imputeranno pure la lussuria: l’ultima pennellata al ritratto del despota immorale, concluse, mentre un sorriso triste gli attraversava il volto sfigurato dal tempo.
Tutti quegli occhi fissi su di lui… scosse il capo, riavvolgendo il filo della sua lunga, penosa esistenza. Lunga? In fondo, mesi e decenni erano volati via come rondini a marzo: fulminei. L’addio alla casa paterna, la nascita di Druso, il trionfo di Augusto, la prima notte in Germania sotto una pioggia battente, gelida: immagini che si sovrapponevano, scene di un’atellana… ma più confuso ancora era il secondo atto, che per fortuna si avviava alla fine. L’incoronazione era stata un sogno, no: un incubo… come un’incarcerazione o una caduta a precipizio nel nulla. Chiuse gli occhi, si morse le labbra screpolate: perché hai accettato tutto questo, vecchio mostro? Per il potere concupito da Augusto? Fece un gesto schifato: non per quello, no. Per vanità? No, ne era immune… per il bene di Roma, aveva provato mille volte a rincuorarsi, talvolta riuscendovi. Vacua ipocrisia: Roma era quelle sciagurate spintrieche si dimenavano sotto lo sguardo lubrico di funzionari corrotti; era un Senato in vendita e sempre pronto al voltafaccia, un popolo di accattoni che transumava dalla taverna al Circo. Nient’altro che questo, a parte la sublime propaganda uscita dalla bottega di Mecenate, un cunnus. “Dell’altro vino!” ordinò con voce lievemente impastata: gli fu portato. No, aveva sacrificato i suoi anni per orgoglio, passività e mancanza di fantasia, inchinandosi a volontà più forti della propria – e adesso aveva la certezza di aver sbagliato tutto, sin dal principio. Avrei dovuto morire con Vipsania a Rodi, confessò a se stesso, mentre una coppia di lacrime sgorgava dai miopi occhi celesti.
Tornare indietro non si poteva: l’amata e il fratello erano morti da decenni, e spariti erano anche coloro che avevano finto di amarlo. Rimanevano queste larve ossequiose e viscide, che attendevano null’altro che la sua augusta dipartita. Le avrebbe volentieri accontentate, ma… il senso del dovere glielo impediva. Il mondo non valeva nulla, la sua carica nemmeno: eppure trascorreva notti insonni rimuginando sulla successione, lambiccandosi il cervello su chi fosse il meno inadatto. Il figlio inetto, il dotato ma sinistro nipote Gaio? Nessuno, nessuno… era un Paride vizzo e moribondo costretto a scegliere fra pretendenti indegni. Schifava la plebaglia, ma si sentiva responsabile del suo futuro… così come, da comandante, si era sentito responsabile della vita di ciascuno dei suoi legionari. Non per amore: come già detto, per un meschino senso del dovere che gli era stato inculcato sin dall’infanzia. Dell’amore sapeva poco o nulla, infatti: chi mai gli aveva voluto bene? Non sua madre Livia, un’intrigante, non l’Imperatore… qualcuno sì, invece: rivide due visi giovani e fu sopraffatto da un’emozione irrefrenabile, che cercò di nascondere coprendosi il viso con le mani. Avvertì sulla punta delle dita l’unto delle pomate che il medico gli aveva applicato al mattino, e provò quello stesso ribrezzo che chi gli stava attorno – ne era certo – sentiva per lui. Mi curerà il fuoco, si ripromise, e basterà un attimo… ma prima devo portare a termine il mio ingrato compito – così pensava, in quel tardo pomeriggio di primavera, l’umanissimo e sagace imperatore che le malepenne di Svetonio e Tacito avrebbero ben presto avviluppato in una leggenda nera.
Posò il calice gemmato, e per l’ennesima volta lo sguardo gli cadde sulla pergamena arrotolata e già consunta che giaceva sul piano del tavolo. Quel dispaccio gli era pervenuto una settimana prima: l’aveva letto e riletto fino a sfinirsi la vista, e lo portava con sé ovunque andasse. Arrivava dalla lontana Palestina, una terra che lui non aveva mai visto e mai – ne era sicuro – avrebbe visitato in futuro. Come altrimenti definirla se non una minuscola spina nel fianco dell’Impero, una ferita superficiale ma incapace di rimarginarsi? Bruttissima razza i giudei: insofferenti, sempre in fermento, mai domi. Quella minuscola regione periferica era fonte di inesauribili problemi: pareva fosse il terreno stesso, secco e arso dal sole, a generare di continuo ribelli, fanatici e banditi. Manco Giasone ne sarebbe venuto a capo, e il passare del tempo – scommise – avrebbe solo peggiorato le cose. In estrema sintesi: gli israeliti – a differenza degli altri popoli mediterranei, alcuni dei quali vantavano un ben più illustre passato - rifiutavano caparbiamente qualsiasi tentativo di romanizzazione, lottavano per restare se stessi. Sotto un certo aspetto Tiberio li ammirava: accettando un destino che non gli somigliava, lui in fondo s’era lasciato assimilare. Era non l’uomo, bensì la maschera più potente del mondo… potente? La potestas tribunicia e l’imperium proconsolareerano ormai solo degli impicci, che si assommavano agli acciacchi della vecchiaia.
Batté le mani, e un valletto corse a capo chino verso di lui, pronto a ricevere ordini. L’anziano imperatore espettorò un nome proprio e uno comune. Non poteva ricevere ospiti stravaccato su un divano, la sua dignitas glielo vietava: si sollevò a fatica, tentò senza riuscirci di raddrizzare la schiena curva e reprimendo un lamento si accomodò sul seggio che il servo, nel frattempo, gli aveva portato. Le guardie ai due lati dell’ingresso fecero passare un uomo magro e piuttosto attempato, vestito con abiti di foggia orientale. Trasillo, l’astrologo di corte: i detrattori lo giudicavano un ciarlatano, ma il princepsgli riconosceva acume, perspicacia e un’invidiabile cultura. Inoltre era fedele (nei limiti in cui può esserlo uno stipendiato): quest’insieme di doti lo aveva innalzato, negli anni, alla carica ufficiosa di confidente di Claudio Tiberio Nerone.
Il mago lo salutò con l’«Ave Caesar!» di prammatica, cui fece seguito un leggero inchino.
Il princeps abbozzò un sorriso che, viste le condizioni del suo viso, sembrò a tutti (ma non al diretto interessato) una smorfia: “Ave Trasille, cosa ci dicono oggi le stelle del firmamento?”
“Esattamente ciò che ci dicevano ieri e avantieri, Domine” rispose con tranquilla noncuranza l’uomo di scienza. Tiberio ridacchiò senza replicare: qualsiasi altro (non importa se indovino o senatore) avrebbe replicato alla sua celia promettendogli altri venti anni di impero – una maledizione spacciata per augurio. Apprezzava, negli umani, una certa dose di franchezza, un portamento fiero, il coraggio delle proprie opinioni: qualità rarissime, all’interno del mondo in cui l’avevano imprigionato. A parte lui, Trasillo era l’unico a Capri ad aver letto quell’ambigua, inquietante relazione.
Cesare chiese, a voce bassa: “Può un uomo… risorgere, che tu sappia?”
L’astrologo rifletté sul reale significato del quesito, poi – messosi sulla difensiva – incominciò: “Il mito di Orfeo ed Euridice può essere interpretato nel senso che…”
“Non mi riferivo alle fiabe, amico mio – tagliò corto il monarca – ma alla vita reale. Ti risulta che qualcuno sia mai tornato dall’Ade?”
Era un’affermazione più che una domanda: Trasillo ammise che no, non gli risultava.
“Ritieni dunque che possa trattarsi di una messinscena, di una beffa ordita ai danni della nostra autorità?” lo incalzò il vecchio.
L’astronomo fissava quella faccia rugosa e imbruttita dalle pustole, che molti ufficiali e cortigiani schernivano in segreto. La rovina operata dalla decrepitezza e dagli affanni lasciava tuttavia intravedere un’ombra dell’avvenenza giovanile, specie quando – ormai sempre più raramente – gli occhi seri e inquieti di Tiberio si animavano, lasciando trasparire la vivacità del suo intelletto e la profondità del suo animo. Lo odiano perché è infinitamente migliore di loro, nel pensiero e nel cuore, sentenziò fra sé prima di riaprire bocca: “Non è escluso, Cesare… ma l’ipotesi, pur sostenibile, non mi persuade appieno: Ponzio Pilato è un funzionario scrupoloso, attento, avrà indagato da par suo…”
“Non sempre la verità si lascia cogliere” mormorò il princeps, in tono enigmatico. Condivideva, in ogni caso, l’opinione espressa da Trasillo: Pilato era un uomo altero e poco brillante ma coscienzioso che, dopo un inizio traumatico, aveva preso le misure al popolo che gli era stato affidato, evitando inutili occasioni di attrito. Reggeva la provincia con mano ferma e quando c’era da colpire, colpiva… senza eccessi, però. I suoi rapporti, puntuali e circostanziati, testimoniavano della sua precisione… l’ultimo, tuttavia, si distaccava dai precedenti, e non perché il governatore apparisse reticente, no: la questione era un’altra. Scorrendolo per la prima volta, l’imperatore aveva provato una strana impressione – come se, nel redigerlo, il ligio burocrate si fosse trovato a mal partito con le parole, i concetti (giuridici, etici…), ne fosse stato in qualche maniera sopraffatto. La cronaca, i dati c’erano, ma le frasi – di solito scarne – suonavano contorte, involute, come se i dubbi che lo scrivente aveva in capo avessero frenato lo stilo. Una crocifissione come tante, a fronte di… quale colpa commessa? Dallo scritto non emergeva nulla di chiaro e definitivo. E poi quella scelta bizzarra di inviare assieme al rapporto quei due… «Testimoni degli accadimenti, dalla voce dei quali, Cesare, potrai apprendere dettagli di questa complicata vicenda che non trovano spazio in una comunicazione ufficiale».
“E’ come se Pilato, stavolta, non avesse colto l’essenza, oppure se avesse di proposito rifiutato di coglierla…” rifletté Tiberio, a voce sufficientemente alta da consentire all’interlocutore di udirlo.
“Davvero prendi in considerazione l’eventualità di una… risurrezione, Cesare?” l’astrologo pronunciò la penultima parola quasi con timore, come si trattasse di una blasfemia. Per lui l’idea stessa era inconcepibile: immortali erano gli astri, non gli esseri umani.
Il princeps lo guardò pensieroso: “Come ben sai, non credo all’esistenza degli dei, evanescenti creazioni della nostra mente. Però devi ammettere che questa storia ha dell’inspiegabile, sembra scritta da uno dei vostri fantasiosi compilatori greci, non da un militare notoriamente privo di immaginazione. Bene, è tempo di fare entrare gli ospiti: li ho fatti attendere fin troppo a lungo, ormai devono essersi ritemprati dalle fatiche della traversata. Resta con noi, Trasillo: sai bene che tengo in gran conto il tuo giudizio.” Claudio Tiberio Nerone si deterse con un panno la fronte da cui colavano rivoli di sudore, poi batté nuovamente le mani e comandò, con voce rauca ma stentorea: “Convocate il tribuno Marco Irzio e il centurione Anneo Sabino, li voglio immediatamente alla mia presenza!”
I due ufficiali non si fecero attendere: entrarono nel salone al passo, con l’elmo piumato sottobraccio. Indossavano l’uniforme da campo, ma – ovviamente - erano privi di armi. Il pavimento di marmo li accolse muto: a rompere il silenzio fu il saluto gridato all’unisono. Tiberio si limitò a un cenno, poi li squadrò per un istante, per soppesarli. Irzio era un uomo alto, sui sei piedi abbondanti (come l’imperatore da giovane), scuro di capelli e carnagione e piuttosto azzimato: la sua corazza lucente esibiva il rilievo dei muscoli, il taglio della tunica era impeccabile. Un bellimbusto da parata, lo giudicò il princeps– che sarà stato pure un misantropo, ma di uomini e soldati se ne intendeva. Anneo Sabino era notevolmente più basso e tarchiato: un centurione vecchio stampo, il cui coraggio in battaglia era attestato dalle numerose decorazioni e da una profonda cicatrice che gli solcava la guancia destra. Tiberio notò che il giovane tribuno non riusciva a star fermo, era visibilmente eccitato, mentre il sottoposto appariva perfettamente a suo agio e padrone di se stesso.
“Tribuno – esordì, dopo essersi schiarito la voce – che impressione hai riportato di questo Gesù?… prima e dopo il processo, intendo. Nel dispaccio del governatore sta scritto che sei stato tu ad occuparti di questa sgradevole… faccenda, insieme ai tuoi uomini.”
Irzio si umettò le labbra, nervoso: l’imperatore godeva di pessima fama, temeva di contrariarlo o, semplicemente, di dire la cosa sbagliata, mettendo a repentaglio una carriera già compromessa (la Palestina non era di certo un premio). Inoltre, chissà perché, quella domanda non se l’aspettava… o perlomeno non si aspettava gli venisse rivolta a bruciapelo. Azzardò esitante: “Era un uomo abbastanza… longilineo e chiaro, per essere un giudeo. Portava i capelli lunghi e la barba curata…”
Tiberio scosse il capo, lievemente spazientito: “C’era qualcosa che colpiva, in lui? Che so, il portamento, la voce? Come si è comportato durante il processo, e dopo… come si esprimeva, conosceva altre lingue oltre l’aramaico? Desidero capire che tipo d’uomo fosse, per questo vi ho ammessi alla mia presenza!”
Marco Irzio si fece coraggio: la faccia del vecchio non era piacevole a vedersi, ma il tono di voce era abbastanza rassicurante. “Vestiva di una tunica bianca, di lana… un indumento da poveri, e povero lo era senz’altro, tuttavia… aveva tratti raffinati e un aspetto nobile. A differenza dei suoi connazionali non urlava mai… beh, almeno non urlava prima di essere sottoposto a tortura… ma la gente lo ascoltava volentieri, davvero i suoi discorsi soggiogavano le moltitudini… una cosa mai vista prima (si morse la lingua: dopotutto era al cospetto del primo oratore della Res publica!). Aramaico… al governatore ha risposto in greco, lo parlava benissimo, direi… pacato era. Una cosa colpiva in lui, sì: gli occhi… profondi, come quelli di un saggio. O di un vecchio.”
L’imperatore capì quello che l’altro cercava di dirgli: “Occhi indagatori… come quelli del Divo Augusto? Ammesso che tu ne rammenti le fattezze, dovevi essere ancora bambino quando morì l’Imperatore…”
“No – ribatté il tribuno – meno… freddi (subito si pentì dell’affermazione, ma al suo interlocutore sfuggì un sorriso), il suo sguardo era pieno di comprensione, pareva leggesse dentro ognuno… questo turbava anche il governatore.”
“Leggo che non aveva mai incitato alla violenza e alla ribellione: confermi? E allora perché è stato condannato a una pena… simile?”
“Confermo – assentì il tribuno – non ha mai pronunciato una parola di odio, manco un’imprecazione mentre lo flagellavano, e io ho assistito a… tutto (lo flagellavamo, corresse mentalmente Tiberio: eri tu a impartire gli ordini, Marco Irzio). Penso abbiano voluto la sua morte per questo, perché… come dire, non riuscivano a inquadrarlo, a comprenderlo! Non era il solito facinoroso, tutt’altro, parlava di un regno “non di questo mondo”, era come se lui fosse di… un altro mondo. Ponzio Pilato non voleva neppure condannarlo” concluse con un sospiro.
L’imperatore tacque, meditabondo – poi rilesse con maniacale attenzione alcuni passaggi del rapporto. Stava per formulare un quesito quando nella sala irruppe, senza farsi annunciare, Gaio Cesare Germanico, universalmente noto come Caligola. “Mi hai fatto chiamare, Cesare?” cantilenò il nipote di Druso, per metà erede in pectore e per metà ostaggio. Tiberio fu tentato di congedarlo aspramente (e in seguito si rimproverò di non aver ceduto all’impulso), ma fece finta di nulla, accennando di sì col capo. Ascolta, ascolta pure… Gaio era per lui un mistero insondabile. L’astio degli storici ne avrebbe deformato il ritratto – enfatizzandone la precoce stempiatura, le gambe troppo magre e l’accentuata pelosità del collo, dovuta soprattutto al fatto che si radeva di malavoglia - ma si trattava nel complesso di un bel giovane: di statura ben superiore ai sei piedi (sopravanzava l’aitante e confuso Irzio di mezza testa), sfoggiava una capigliatura castano-bionda abbastanza comune fra i Giulio-Claudii e due occhi penetranti color acquamarina, che non sbatteva mai. Era difficile sostenere il suo sguardo, che pure sapeva farsi sfuggente. Un anguilla, che all’occorrenza potrebbe rivelarsi un aspide… Tiberio non si fidava affatto di lui, pur tenendo in gran conto le sue doti intellettuali: Gaio era un ottimo retore, aveva una vasta cultura e un senso dell’umorismo tanto raffinato quanto caustico.
L’ingresso imprevisto di Gaio l’aveva distratto, ma il princeps tornò ben presto sulla questione che gli stava a cuore, apostrofando di nuovo l’irrequieto Irzio: “Dunque, tribuno, si è infierito su un uomo che nemmeno si intendeva condannare: singolare, benché talvolta – lo leggo fra le righe, ma io stesso ne sono amaramente conscio – commettere una grave ingiustizia serva a evitare guai peggiori. Tralasciamo gli aspetti macabri, anche Pilato resta pudicamente sulle generali (l’accenno alla corona di spine lui l’avrebbe omesso, comunque – anzi: mai avrebbe consentito che fosse posta in capo al morituro: che senso aveva quel gesto vigliacco, quell’umiliazione gratuita?)… a un certo punto questo presunto messia spira sulla croce, come un brigante: cosa accade allora?”
Il tribuno abbassa gli occhi, la voce si fa flebile: “Dovevo verificare che non scoppiassero disordini, che tutto finisse… presto e bene. Ordinai a Marco Longino, uno dei miei sottoposti, di sincerarsi che quell’uomo fosse morto per davvero… lo fece con la lama del suo pilum, palesando all’ultimo un’insospettata ritrosia. Morto era morto… in quel preciso istante una saetta attraversò il cielo, poi il tuono scosse la terra. Il sole scomparve, l’aria si offuscò: cominciò a diluviare, e noi scappammo a perdifiato per metterci in salvo… i soldati, la folla. Ci chiudemmo appena in tempo nei nostri alloggiamenti, sembrava che l’acqua dovesse inghiottire Gerusalemme e il mondo intero: mai ho assistito a uno spettacolo del genere, e dire che vengo dall'umida pianura padana. Indescrivibile… poi cessò, tutt’a un tratto. Ma Longino era perso, cioè… non ragionava più, sbraitava lanciando urla sconnesse. Disperazione, terrore… ed era un veterano, un uomo duro. Non si è più ripreso: l’abbiamo dovuto congedare. Ah sì, dimenticavo, forse è importante: prima di morire l’uomo ha spalancato gli occhi - Longino ripeteva smaniando che erano immensi, senza fondo - e ha gridato qualcosa nella loro strana lingua… mi è stato detto che era un’invocazione di perdono rivolta al padre… perdono per noi, suoi carnefici. L’avevamo massacrato, il sangue insozzava tutto… e in cambio lui ci ha perdonato” sillabò, ancora incredulo per quella reazione inconcepibile, inumana.
Tiberio resta a bocca aperta: il racconto del soldato è più vivido, emozionante di quello vergato sulla pergamena. Invece dell’odio, l’amore. Ha ancora interrogativi per Irzio, ma lo vede provato, e sposta quindi la sua attenzione sul centurione Sabino, che forse ha compreso quanto sfugge al suo superiore.
“Tu vieni da Cafarnao, non è così? In realtà vieni da molti luoghi… ma davvero l’hai incontrato quando la sua… (non sa quale parola adoperare, poi il suo istinto - o forse l’anima - ne sceglie una) missione era appena agli inizi?”
Anneo Sabino fa cenno di sì col capo, una luce seria e addolorata negli occhi verdastri: “E’ così, Cesare: è successo a Cafarnao, prima che fossi richiamato a Gerusalemme. Un mio schiavo si era gravemente ammalato: un uomo mite e laborioso, cui dovevo gratitudine. Nessun rimedio gli giovava, e così… ho pensato, nella mia disperazione, di rivolgermi a questo Gesù, di cui raccontavano meraviglie. Non credevo venisse… per loro io ero un pagano, eppure è venuto, c’è stato un dialogo fra noi…” la voce gli si ruppe, il coriaceo centurione si arrendeva alla commozione.
Il princeps s’informò: “Tu conosci l’aramaico, mi dicono… in quella idioma avete conversato?”
Sabino abbozzò un sorriso: “In verità non abbiamo scambiato molte parole, ma ho avuto la certezza che intendesse il latino. Di più: come ha già detto il tribuno, che senza sforzo ci leggesse dentro. Vuoi sapere com’era, Cesare? Vedendolo pensai senza volerlo: ecco un Re vestito di stracci. Il suo tono era dolce, affettuoso, comprensivo. Un uomo buono, ma…”
“Ma?” s’incuriosì Tiberio, che disprezzava profondamente tutti i fatui reucci orientali in cui s’era imbattuto negli anni.
“Siamo portati a scambiare la bontà per debolezza, persino stupidità. In effetti, la supposta bontà di molti è pura dabbenaggine, ma non la sua! Ho percepito, ascoltandolo, il suo grande… potere, la sua forza interiore: se avesse voluto sollevare il popolo contro di noi, gli sarebbero andati dietro. Tutti. Ma non voleva…”
“E il tuo servo, che ne è stato di lui?” chiese impaziente l’imperatore.
Anneo allargò le braccia: “Sì è pienamente ristabilito, Cesare, non so come sia potuto accadere (lo sapeva, ma riteneva imprudente svelare le sue convinzioni), però è avvenuto.”
Tiberio e Trasillo si scambiarono uno sguardo intenso: residuava una domanda, quella fondamentale... ma non lo erano anche le precedenti? I militari adesso fissavano impalati la parete dietro il trono improvvisato; da parte sua, Caligola non aveva ancora proferito verbo: sogghignava, ma il suo cuore era inquieto perché, pur bramando sopra ogni altra cosa onori divini, era atterrito dai fenomeni sovrannaturali. Per fortuna l’hanno ammazzato, si tranquillizzò, e i defunti non ritornano dall’Ade.
L’imperatore pretese gli fosse portato del vino annacquato e – bevutolo – si levò in piedi a fatica. “Tribuno Marco Irzio, cos’è davvero successo la notte successiva alla sepoltura? Su questo aspetto il governatore è stato piuttosto evasivo…”
Irzio narrò i fatti con dovizia di particolari, e così concluse: “I tre uomini che ho lasciato di guardia, tutti e tre affidabili veterani, hanno affermato di essere stati abbagliati, nel cuore di una notte serena, da un lampo improvviso, cui è seguita una scossa di terremoto che nessun altro ha avvertito. Sono stati invasi dal terrore, e hanno abbandonato la postazione… per questo li ho fatti punire, ma erano autenticamente sconvolti: balbettavano. L’indomani l’enorme pietra che sigillava la tomba non c’era più, rimossa… e il sepolcro era vuoto.”
Tiberio rinunciò a richiedere ai due militari quale fosse la loro opinione sull’origine – naturale o meno – dell’evento; riseppe da loro, però, che il governatore aveva subito pianificato un’operazione di ricerca a vasto raggio che aveva coinvolto mezza guarnigione gerosolimitana, ponendosi egli stesso alla testa dei soldati. Presosi il rischio di affidare il controllo della capitale alle guardie del tempio, avevano setacciato ovunque assieme ai suoi. Risultati: nessuno - almeno fino al giorno in cui Irzio e Sabino erano salpati alla volta di Capri. Sembrava che il cadavere fosse stato inghiottito dalla terra (o il redivivo dal firmamento).
L’imperatore appariva assorto – d’improvviso chiamò a sé gli ospiti (“Venite con me!”), uscì nel patio colonnato e poi li guidò fuori dall’immensa, sontuosa villa, dirigendosi verso l’estremità del promontorio, laddove la salda terra soccombeva al cielo e alle correnti aeree. Raggiunto il bordo si appoggiò al parapetto e – vincendo l’angosciante senso di vertigine – s’impose di guardare in basso: la parete rocciosa scendeva a precipizio per centinaia e centinaia di piedi, sprofondando infine in un mare blu cobalto di terrificante bellezza. Poco al largo incrociavano due triremi di pattuglia, venute da Miseno per impedire accessi indesiderati all’isola: da lassù parevano larve di libellula in un vasto, mugghiante e ostile specchio d’acqua. Dove sta tutto il mio potere?, si domandò con tetra ironia il vecchio. Se volessi gettarmi in questo meraviglioso mare da quassù mi sfracellerei sulle rocce, se volessi attraversarlo a nuoto annegherei o sarei preda dei pesci… Fece cenno ai quattro di avvicinarsi per ammirare quello spettacolo che toglieva il fiato, quindi esclamò: “Eccovi l’unico potere autentico: quello della natura, che innalza montagne e le abbatte in un solo istante! Il mio, persino quello di Roma sono puro teatro: basta una pioggia troppo violenta per cancellare lo spettacolo, capite? Recitiamo pure il nostro monologo sulla scena per compiacere il pubblico, ma senza darci troppe arie: siamo nient’altro che guitti!” La lezione era per Caligola, che non l’ascoltò neppure: fiato sprecato, come sempre.
Tiberio lanciò uno sguardo agli scogli affioranti, bianchi di spume. Per quanto s’impegni, un singolo essere umano non otterrà mai i risultati attesi: la sua capacità di incidere sul reale – e persino sui propri simili - è quasi nulla, che vesta o meno la porpora. Morbi, accidenti, elementi e clima non si adattano ai nostri programmi: li irridono. Talvolta è sufficiente la puntura di un insetto… Le migliori intenzioni di un capo, la sua abnegazione non bastano a rendere questo mondo meno inospitale per gli umani: soltanto un dio potrebbe dar loro pace, serenità e giustizia. Non un dio qualunque: un dio che ha sperimentato cosa sia la sofferenza, il dolore. Un dio divenuto immortale al prezzo della propria vita. Invierò il tribuno Caio Domizio a cercarlo – decise fra sé - quel giovane idealista e abile è l’unico di cui possa fidarmi fino in fondo. Ormai si era smarrito nelle sue senili fantasie: sognò ad occhi aperti di incontrare quel Gesù risorto, e fissando le proprie iridi nelle sue di consegnargli, assieme allo scettro, la Repubblica e il fato di milioni e milioni di infelici. La Pax Romana era niente più che una vuota formula coniata da Augusto per glorificare se stesso: il mondo era rimasto la cloaca che era prima, solamente un semidio avrebbe potuto garantirgli Pace e prosperità autentiche… Sì, a quel giudeo avrebbe affidato l’Impero: sarebbe stato il suo ultimo atto, l’unico di cui andar fiero.
Tanto Trasillo quanto Gaio si avvidero che il volto del nesiarca aveva assunto un’espressione serena, quasi trasognata: il primo ne fu lieto, il secondo si rabbuiò. Mostrarsi irritato non gli conveniva, in ogni caso: affettò un sorriso, fece un lieve inchino e – profittando della disattenzione di Tiberio, rapito dai suoi pensieri - si allontanò in silenzio dal gruppo. Una breve corsa a cavallo e avrebbe raggiunto la sua dimora, costruita molto più in basso, quasi a livello del mare.
Scendendo cautamente al trotto per il sentiero scosceso, il figlio superstite del troppo incensato Germanico (un temerario assetato di gloria libresca, pensava di lui Tiberio, che tuttavia non l’aveva fatto avvelenare) tentò di rassicurarsi: se quel Gesù fosse stato davvero una divinità, non avrebbe avuto bisogno di risorgere – si sarebbe risparmiato una morte infamante, da schiavo. Tutta la storia udita era assurda, demenziale, ridicola. L’imperatore però era un tipo cocciuto: come talvolta capita ai vecchi, si era incapricciato di una favola… e se non avesse agito con giudizio, sarebbe stato lui – Gaio – a pagare le conseguenze di quell’infatuazione senile. Quel dannato giudeo era morto e sepolto, ma di certo aveva dei seguaci, vivi: qualche impostore poteva farsi avanti, senza contare il rischio che la superstizione si diffondesse, attecchendo perfino a Roma. “Il popolo è un corpo senza testa – sentenziò, disgustato – dovrò domarlo in fretta e senza riguardi!” Biberio avrebbe spedito qualcuno a indagare, sapeva già chi: toccava studiare delle contromosse efficaci. Ne aveva già in mente una, risolutiva.
Dinanzi alla villa un uomo afferrò le redini del suo baio. Il servo, alto quasi quanto lui, aveva una corporatura massiccia e capelli biondissimi: si chiamava Ricimero, ed era un germano di nobile schiatta – un principe. A corte si mormorava fosse il suo amante, e Gaio non aveva mai smentito quella diceria oltraggiosa, per quanto fosse infondata. In verità, lui bramava provare ogni esperienza: aveva fornicato con donne, uomini e adolescenti, ma mai con Ricimero. Costui era ai suoi occhi qualcosa di assai più prezioso di un misero amante: era un complice, quasi un amico. Mai l’aveva deluso: era rapido, efficiente, totalmente privo di scrupoli – un sicario perfetto. Inoltre, malgrado l’aspetto esotico, riusciva all’occorrenza a passare inosservato: la sua capacità di mimesi era ineguagliabile, la laconicità inestimabile. Ne avrebbe fatto il capo delle sue guardie, forse persino – gliel’aveva promesso una volta – un re al di là del Reno: era l’unico essere umano con cui Gaio si confidava, sapendolo indissolubilmente legato al suo destino. “Quando sarò Imperatore, tu…”
Entrarono insieme in quel nido di vipere, pullulante di spie di Tiberio, e insieme si chiusero nella stanza da letto: colà sarebbero stati al sicuro da orecchi indiscreti, e che gli informatori dell’odioso nesiarca bisbigliassero pure – non avrebbero carpito alcun segreto.
Gaio Cesare Germanico narrò asciuttamente l’intera vicenda al suo sodale, senza tralasciare nomi e particolari rilevanti. A intervalli regolari il germano annuiva: stava immagazzinando tutte quelle informazioni, la sua mente era assai più svelta della lingua. Caligola aggiunse, infine: “Il vecchio ha combattuto controvoglia, ucciso controvoglia, controvoglia si è sposato e a malincuore ha ereditato l’impero. Verrebbe da dire che la vita sia stata per lui un gran peso… non nego, però, che sia stato un eccellente amministratore: Roma dovrebbe essergli grata, ma conoscendola – sogghignò – lo ripudierà presto, invece. Tiberius in Tiberim! latrerà la feccia. Ora lui vorrebbe finire bene, regalare al mondo addirittura la pace… povero stolto: l’uomo è sempre stato e sempre sarà una belva feroce, un essere irragionevole! Lui non lo accetta, io sì… e voglio l’Impero non per servirlo, come ha fatto lui, ma per servirmene! Il mio scopo non è amministrare, bensì regnare: voglio tutto, non importa il prezzo da pagare, Ricimero… non punto a sopravvivere ottant’anni né alla gloria di Achille o Giulio Cesare… desidero vuotare il calice fino alla feccia, dopo aver assaporato ogni singola goccia -esclamò, bevendo con ingordigia – prima però devo conquistare il trono, altrimenti tutti i nostri disegni li spazzerà via il vento.” L’inviato di Tiberio non doveva scoprire nulla, i testimoni dovevano tacere per sempre, la superstizione andava estirpata prima che mettesse radici: silenziosamente Ricimero annotava.
“E Pilato?” domandò ad un tratto: aveva una voce sinistra, minacciosa.
Gaio sorrise con sufficienza: “Pilato è un politico, sa fare i suoi conti: distingue il tramonto dall’alba. Non ci ostacolerà… inoltre è un buon governatore per quella provincia maledetta.” La parentesi era chiusa. “Non sarà un problema per te raggiungere la terraferma: a quel punto ti imbarcherai sulla nave giusta, e farai il tuo lavoro… con discrezione, è ovvio. Questo è per le spese – gli consegnò un sacco pieno zeppo di sesterzi – in Palestina ti metterai in contatto con Cassio Cherea, un uomo fidato.”
Ricimero inarcò un sopracciglio: residuava una questione. “E se lo trovassi… il risorto, intendo?”
Caligola s’incupì per un momento: “Se… farai in modo che non venga mai qui o a Roma. Ma al massimo ti imbatterai in un impostore, o in una setta di fanatici: la cosiddetta resurrezione è stata niente altro che un’abile sceneggiata.” Terminando la frase scoppiò a ridere: lo divertiva l’idea di un duello fra due falsi re… che non ci sarebbe mai stato, e in ogni caso il suo germano avrebbe prevalso. Riempì due coppe di vino e ne offrì una all’impassibile Ricimero: “All’Imperatore… il prossimo, naturalmente!”
* * *
Giunti in Palestina, entrambi gli inviati fecero del loro meglio: si misero sulle tracce dei discepoli, ma sul presunto risorto non raccolsero altro che voci, vaghe e contraddittorie. Domizio cominciò a dubitare che fosse mai esistito, cionondimeno non si perse d’animo: dopo estenuanti ricerche riuscì a scovare il nascondiglio di un certo Simon Pietro, che gli sembrò un povero idiota. Sulla via del ritorno fu purtroppo assalito da una banda di predoni – così scrisse a Cesare Ponzio Pilato – e brutalmente ammazzato. Pure Irzio, Sabino e i familiari di quest’ultimo furono vittima di misteriosi incidenti. Malgrado l’aiuto di Cherea, Ricimero non trovò alcun segno del passaggio di Gesù, ma portò brillantemente a termine il resto della missione affidatagli.
L’esito infruttuoso della ricerca e la morte di Caio Domizio furono un duro colpo per l’imperatore. Ci vollero mesi prima che Tiberio si rassegnasse, anni perché si persuadesse – sconfortato – che il suo era stato solamente un sogno, e che non esistevano alternative a Gaio. Controvoglialo adottò, poi si risolse ad attendere che il destino si compisse: aveva svolto il suo ultimo, ingrato compito. Una notte sentì il pronipote strisciare dentro la sua stanza come un ratto o un serpente: spalancò le palpebre, fissandolo con sdegno al buio, ma non si mosse. “Fai quello che credi sia meglio per te, soddisfa in realtà il mio unico desiderio” farfugliò, mentre il cuscino premuto sulla faccia gli mozzava il respiro.
Gaio Cesare Germanico, detto Caligola, recitò per quattro anni la parte di un dio beffardo, blasfemo, eccessivo in tutto, estroso e crudele (ma non più della società che l’aveva generato). Sazio di punizioni, gozzoviglie e stravizi, scoprì alfine l’amore con la poco avvenente Cesonia, ma era troppo tardi, troppi nemici aveva accumulato: il calice era ormai vuoto quando fu scannato come un porco dall’ingrato Cherea. Sulla moglie e la figlia si abbatté la ferocia di uomini vili, elevati ad eroi da storici non meno spregevoli (anche se leggiamo i loro scritti al liceo).
Questo breve racconto di fantasia, ad ogni modo, è dedicato a Tiberio Cesare: uno dei più capaci, rispettabili e (in fondo) umanifra gli imperatori di Roma. Fu l’uomo delle imprese “oscure”: quelle che nessun poeta cortigiano cantò, ma che assicurarono una lunga sopravvivenza all’Impero (al quale sacrificò tutto se stesso). Che sia stato odiato da senatori e plebaglia non stupisce: manco al giorno d’oggi onestà, rigore e schiettezza sono doti apprezzate in politica; lui inoltre non celava la propria disistima per chi non meritava altro (quasi tutti).
Se il dialogo fra Gesù e Pilato ha ispirato pagine struggenti (penso a Il Maestro e Margherita), cosa ci avrebbe regalato il confronto tra due “spiriti magni”? Opere immortali e – azzardo – una crocifissione in meno.