Posto qui la seconda parte del racconto del “sacco di Palermo” negli anni 50 e 60 del secolo scorso fatto dallo storico inglese John Dickie. Il racconto è tutto politico e svolto senza il “non detto perché implicito” che talora caratterizza gli storici italiani, di solito indulgenti verso la Democrazia cristiana, il partito a lungo egemone nell'Italia repubblicana.
La prima parte si può trovare al seguente link
Da sinistra Salvo Lima, Vito Ciancimino, Ernesto Di Fresco e Giovanni Gioia a un raduno della Democrazia Cristiana palermitana |
La storia del sacco di Palermo è nella sua essenza politica, non architettonica, e come tale ha inizio in un’altra città. Quando gli italiani lamentavano che la mafia fosse «gestita da Roma», formulavano una versione semplicistica di un’incontestabile verità. I politici, gli appaltatori e i mafiosi responsabili del sacco di Palermo si trovavano a un estremo di una catena che conduceva diritto alla sede centrale della Democrazia cristiana, situata a Roma in piazza del Gesù. E qui che fu inventata un’intera nuova struttura del governo clientelare a uso dell’epoca democratica.
Il primo anello della catena era Amintore Fanfani, un impettito professore universitario aretino di bassissima statura. Nel 1954, quando diventò leader della DC, propose una generale modernizzazione del partito il cui scopo era di accrescere il potere nelle sue mani. Se dominava il governo, la DC era però esposta all’influenza di poteri esterni: sopra di essa stavano il Vaticano e i magnati dell’industria privata, sotto i notabili conservatori che controllavano pacchi di voti nelle città e nei paesi. E i titoli della DC a invocare l’appoggio di questi poteri poggiavano su basi molto esigue. Fanfani era convinto che per poter trattare con loro su un piede quanto meno di parità, il partito dovesse diventare una moderna organizzazione di massa e un potere autonomo.
In Sicilia, come in buona parte del Mezzogiorno, la rivoluzione fanfaniana significò due cose. Innanzitutto, in seno al partito emerse una nuova specie di dirigenti politici: i Giovani Turchi. Secondariamente, questi uomini s’impadronirono di ogni singolo posto su cui riuscirono a mettere le mani, così nel governo nazionale come in quello locale, negli enti parastatali e nelle imprese nazionalizzate. Il risultato fu che nella nuova DC i vecchi notabili, con tutto il loro carisma, dovettero scendere a patti con i dinamici giovani burocrati dalle mani sporche impegnati a «occupare lo Stato» per conto del partito e di sé medesimi. I Giovani Turchi trasformarono le risorse pubbliche in risorse della Democrazia cristiana.
Il Giovane Turco che più di ogni altro si adoperò ad attuare il programma fanfaniano in Sicilia, nonché l’anello successivo nella catena di corruzione che collegava Roma al saccheggio di Palermo, era Giovanni Gioia. Gioia manteneva un basso profilo pubblico - di lui Tommaso Buscetta dice soltatanto che aveva un «carattere glaciale» - e non ricoprì mai cariche comunali; eppure occupa un posto fondamentale nella storia della città in quegli anni. I bene informati lo chiamavano «il viceré», ed erano convinti che detenesse in esclusiva il potere di scegliere il sindaco di Palermo. Nel 1954, a ventot-to anni, Gioia diventò il segretario della Democrazia cristiana per la provincia di Palermo, e, cosa altrettanto importante, il capo dell’Ufficio Organizzazione del partito, che vigilava sulle tessere. Gioia, o uno dei suoi seguaci, controllò l’Ufficio Organizzazione per quasi un quarto di secolo. Fu da questa posizione chiave che il glaciale Gioia reinventò la politica degli apparati in Sicilia.
In attuazione delle riforme fanfaniane, per la prima volta furono create sezioni locali della DC in tutta l’Italia; a Palermo, per fare un esempio, ce n’erano cinquantanove. Lo scopo dichiarato era permettere al partito di penetrare nelle comunità, e così facendo reclutare nuovi iscritti. I seguaci di Fanfani coniarono nuovi slogan di partito, che proclamavano la fine della «politica dei maccheroni» (voti in cambio di favori). La meccanica di questa modernizzazione politica era semplice: la nuova struttura della DC significava che gli iscritti provvisti di tessera eleggevano i dirigenti del partito; non solo, ma votavano per i delegati che a loro volta selezionavano i candidati alle elezioni. O almeno così voleva la teoria. In pratica, a Palermo il potere non stava nelle mani degli iscritti, ma in quelle di Gioia. Con Gioia al timone dell’Ufficio Organizzazione, le tessere venivano distribuite agli amici, ai parenti, ai morti, a persone i cui nomi erano stati presi dall’elenco telefonico. Quanti più iscritti contava, tanto maggiore era il numero dei delegati che una sezione poteva inviare alle assemblee del partito. In altre parole, quanto maggiore era il numero delle tessere che un capopartito come Gioia poteva vantare, tanto più potere era in grado di offrire al capo di una corrente della DC nazionale, come Fanfani. La prodigiosa crescita degli iscritti al partito verificatasi nell’isola conferì in seguito alla DC siciliana, e a Fanfani, un’influenza sproporzionatamente grande in seno alla DC nazionale. (Il piccolo professore universitario aretino fu per sei volte presidente del Consiglio.)
Di per sé, tutto questo potere, conquistato dal «viceré» Gioia all’interno della nuova Democrazia cristiana siciliana, non contava nulla; perché fosse concretamente redditizio, bisognava che il partito fosse in grado di distribuire i posti di lavoro, le licenze, i sussidi e gli altri beni preziosi che dipendevano dal controllo del governo locale e regionale. La scena era pronta per il sacco di Palermo, e per l’emergere dei due principali felloni della vicenda: Vito Ciancimino e Salvo Lima, entrambi eletti al consiglio comunale palermitano per la prima volta nel 1956, ed entrambi sostenitori di Gioia. Furono loro a trasformare la politica dei maccheroni nella politica del cemento.
Sul piano del carattere, Ciancimino e Lima erano quasi diametralmente opposti. Ciancimino era il figlio di un barbiere di Corleone. Era un tipo arrogante, rozzo di modi, sveglio e ambizioso. Le fotografie degli anni del sacco di Palermo mostrano un uomo dall’aria equivoca inguainato in un completo alla moda, con tanto di panciotto, cravatta sgargiante, capelli pettinati lisci all’indietro e sottili baffi scuri. Lima, figlio di un archivista del comune, era laureato in legge, e la sua vita lavorativa cominciò al Banco di Sicilia. Occhi sporgenti sotto una chioma ricciuta perfettamente in ordine, era paffuto, distinto e sfuggente quanto Ciancimino era smilzo, ruvido e caustico.
Sebbene Ciancimino e Lima appartenessero entrambi alla corrente fanfaniana, i loro legami con la mafia erano diversi. Ciò spiega come mai Buscetta giudicasse i due in maniera opposta. Ciancimino lo ricordava come «un corleonese invadente e prevaricatore» che badava soltanto ai propri interessi e a quelli degli uomini d’onore del suo paese natale. Buscetta - un antico avversario dei Corleonesi - indirizzava il pacchetto di voti sotto il suo controllo verso Lima. I due non si dettero mai del tu, ed erano entrambi uomini di poche parole; ma i loro rapporti d’affari erano basati - se dobbiamo credere a Buscetta - su «rispetto reciproco e sincera cordialità». Conoscendo la passione di Buscetta per l’opera, Lima si preoccupava di fargli avere regolarmente dei biglietti per il Teatro Massimo.
Insieme, Ciancimino e Lima fecero della carica, apparentemente umile, di assessore ai Lavori pubblici la più impudente e lucrosa fonte di potere clientelare in Italia. Tra il 1959 e il 1963 - gli anni più caldi del boom edilizio, e quelli in cui prima Lima e poi Ciancimino furono assessori ai Lavori pubblici - il consiglio comunale concesse 4.205 licenze edilizie, l’80 per cento delle quali andò a soli cinque uomini. E siccome in quel periodo il grosso dell’economia palermitana dipendeva dall’edilizia sovvenzionata con fondi pubblici, per le mani di queste cinque persone passò una quota enorme della ricchezza della città.
Ma non si trattava, come ci si potrebbe aspettare, di grandi costruttori, di imprenditori di rilevanza nazionale. In realtà erano dei signor nessuno. Le norme vigenti prevedevano che l’assessorato ai Lavori pubblici concedesse licenze edilizie soltanto a ingegneri civili qualificati per il tipo di lavoro in questione. Ma qualcuno aveva ripescato un regolamento risalente al 1889, ossia a un’epoca in cui le qualifiche moderne nel campo dell’ingegneria civile non esistevano. Secondo questo regolamento, per ottenere una licenza di costruire un’azienda doveva avere sul suo libro paga un «capomastro» o un «appaltatore competente». La giunta teneva gli elenchi delle persone autorizzate. Tutti e cinque i grandi concessionari di licenze del sistema Lima-Ciancimino figuravano in una lista risalente a prima del 1924. La netta impressione è che anche allora le qualifiche addotte fossero false; uno dei cinque sembra essere stato nulla più che un commerciante di carbone. Un altro si rivelò per un ex muratore, che successivamente trovò lavoro come portinaio e custode in uno dei caseggiati d’appartamenti la cui costruzione aveva in teoria diretto. Interrogato, si limitò a dire che era uno che faceva ciò che bisognava fare per tirare avanti; aveva firmato le licenze per fare un favore a certi «amici».
Guardato dal punto di vista degli «amici» anziché da quello degli uomini politici, il sacco di Palermo cominciò sul campo, con i mafiosi che ora pensavano a tener d’occhio i cantieri, esattamente come in passato avevano sorvegliato le piantagioni di limoni. Azioni vandaliche e furti potevano bloccare qualunque progetto edilizio, se il boss locale decideva in questo senso. Il secondo livello dell’influenza della mafia era un fitto strato di piccoli subappaltatori che fornivano le braccia e i materiali. Quand’anche Lima e Ciancimino non fossero esistiti, a questo livello uomini politici e imprese di costruzioni avrebbero comunque dovuto venire a patti con il potere della mafia. Al livello ancora superiore c’erano i grandi imprenditori edili, uomini inseriti in corrotte reti di amici, parenti, clienti e sodali in traffici illeciti. Quanto più a fondo si spinge lo sguardo, tanto più fitte appaiono le maglie di queste reti, che legano insieme uomini politici locali, funzionari municipali, avvocati, poliziotti, appaltatori edili, banchieri, uomini d’affari e mafiosi.
Al centro di queste reti stavano Gioia, Lima e Ciancimino. Il metodo dei Giovani Turchi era una forma di caos accuratamente pianificato, come mostra la storia del piano regolatore di Palermo.
Tutto cominciò nel 1954. Nel 1956 e nel 1959 il piano sembrò prossimo ad andare in porto, ma entrambe le volte furono apportati centinaia di emendamenti in accoglimento di istanze di privati cittadini, molti dei quali erano in realtà uomini politici democristiani e mafiosi, cui si aggiungevano i loro parenti e associati. Il piano fu definitivamente approvato nel 1962. Ma a quella data l’assessorato ai Lavori pubblici aveva concesso un gran numero di licenze edilizie sulla base della versione del 1959, col risultato che in molte aree la cui destinazione il piano era presunto disciplinare sorgevano già interi caseggiati d’appartamenti. Ancora dopo il 1962, chi avesse accesso a Gioia, Lima e Ciancimino poté far modificare il piano in suo favore, o farsi condonare retrospettivamente violazioni già compiute. In un solo caso fu ordinata la demolizione di un complesso costruito illegalmente. Ma nessuna azienda osò farsi avanti per chiedere la concessione del relativo appalto.
Bisogna riconoscere che in questi metodi c’era un pizzico di genialità. Il piano regolatore cittadino, come le norme che stabilivano chi poteva ottenere una licenza edilizia, avevano lo scopo di impedire costruzioni illegali. Sotto Lima e Ciancimino, esse servirono soltanto a mettere saldamente nelle mani dei politici la facoltà di edificare illegalmente. Abbiamo qui un amaro paradosso, fin troppo noto agli italiani: quanto più severa è la regola, tanto più elevato è il prezzo che il politico è in grado di esigere per trovare il modo di aggirarla.
C’è poi il fattore paura. Un’idea della paura che Ciancimino, il «corleonese invadente e prevaricatore», poteva incutere ce la dà il caso Pecoraro. Nell’agosto 1963 Lorenzo Pecoraro, socio di un’azienda di costruzioni, inviò una lettera al Procuratore capo di Palermo in cui accusava Ciancimino di corruzione. I fatti risalivano a quasi due anni prima, quando, secondo Pecoraro, Ciancimino aveva illegalmente negato una licenza edilizia alla sua ditta. Ciò mentre a un’altra impresa, la Sicilcasa S.p.a., veniva accordato il permesso di costruire su un lotto di terreno contiguo, malgrado il progetto violasse in più punti le clausole del piano regolatore.
L’azienda di Pecoraro reagì all’alt imposto al suo progetto avvicinando Ciancimino per mezzo di un intermediario, che era poi il boss mafioso della zona in cui si voleva costruire. La manovra sembrò aver successo: Ciancimino promise di concedere la licenza. Ma ci fu un ritardo causato da uno sciopero degli impiegati comunali. Quando lo sciopero finì, Pecoraro, per motivi che rimangono ignoti, aveva perso l’appoggio del mafioso. E dal canto suo Ciancimino aveva adottato una nuova tattica: ai dirigenti dell’impresa di Pecoraro fu fatto sapere che potevano avere la loro licenza soltanto se versavano una cospicua tangente nelle casse della Sicilcasa.
Nella lettera al magistrato inquirente, Pecoraro fece il nome di un testimone il quale aveva affermato che Ciancimino era un socio occulto della Sicilcasa. Pecoraro diceva altresì di essere in possesso di una registrazione su nastro in cui si udiva Ciancimino vantarsi che la Sicilcasa gli aveva regalato un appartamento. In un altro nastro si udiva un notaio confessare di essere il tramite attraverso il quale le enormi tangenti pagate per le licenze edilizie finivano all’assessorato ai Lavori pubblici di Ciancimino. Nell’intervallo tra gli eventi del caso Sicilcasa e la lettera di Pecoraro al Procuratore il boss mafioso e tre soci della Sicilcasa erano stati arrestati con l’accusa di omicidio.
Malgrado tutti questi elementi, il magistrato cui Pecoraro aveva inviato il suo rapporto originario non trovò motivi sufficienti per un’incriminazione. L’anno successivo accadde però che il caso capitasse sotto gli occhi di una commissione d’inchiesta parlamentare. Ma a questo punto Pecoraro presentò alla commissione una lettera in cui affermava che le sue passate accuse contro Ciancimino erano «il frutto di errate informazioni». Non solo, ma le voci secondo le quali Ciancimino si faceva corrompere erano state messe in circolazione da individui che nutrivano risentimenti personali e politici nei suoi confronti. Ciancimino, concludeva Pecoraro, era sempre stato un uomo «esemplare per correttezza ed onestà». La faccenda finì lì.
Ciancimino e Lima furono i più scellerati politici democristiani di quel periodo, quelli che avanzarono più in fretta su una nuova, tortuosa strada alla ricchezza e al potere. Per decenni, un’orda di politici mediatori di favori fece della Democrazia cristiana siciliana un labirinto di clientele, consorterie, fazioni, contro-fazioni, alleanze occulte e faide palesi. Perfino giornalisti esperti disperavano di poter mai riuscire a trovare il bandolo di una matassa così aggrovigliata. Sul finire degli anni Sessanta uno di questi giornalisti pubblicò un’inchiesta su quello che chiamò un eminente «personaggio» democristiano. Entrando nel nuovo appartamento palermitano dell’uomo politico, il giornalista trovò
Marmi... e quadri di buona epoca, mobili di ogni stile, ori antichi intatti nel loro splendore, esposizioni di gioielli, monete, reperti archeologici, preziosissimi crocefissi in avorio in profana promiscuità con panciuti Budda di giada. Avevo la sbalordita impressione di trovarmi dinanzi al pingue e disordinato bottino di un corsaro. E il personaggio era lì, in vestaglia lunga; si sbaciucchiava con i suoi capi elettori convenuti dal circondario. Era proprio lui, l’uomo che avevo conosciuto agli inizi della sua carriera politica, povero come un Giobbe: mi chiedevo quale sortilegio gli avesse fatto scaturire attorno quel fiume d’oro.
Il potere che, insieme con altri, negli anni Cinquanta Ciancimino e Lima furono i primi a creare per sé sarebbe durato decenni. Ciancimino fu arrestato soltanto nel 1984, e per una sentenza di condanna definitiva bisognò aspettare il 1992 (fu il primo uomo politico mai condannato sulla base di accuse di collaborazione con la mafia). Il 12 marzo di quello stesso anno Salvo Lima (all’epoca membro del Parlamento europeo) cadde vittima di un sistema giudiziario meno macchinoso: fu ucciso a colpi di pistola nei pressi della sua casa di Mondello, il sobborgo di Palermo che è anche un luogo di villeggiatura sul mare. Se Lima fosse davvero un uomo d’onore, come affermano alcuni pentiti di mafia, non sappiamo con certezza. Buscetta lo riteneva improbabile, ma disse che suo padre era appartenuto alla Famiglia di Palermo Centro. Ciò di cui nessuno dubita è che siano stati i suoi ex amici a porre bruscamente fine alla carriera politica di Salvo Lima.
Da Cosa nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza 2009