Piove, piove…


di Filomena Baratto 

Vico Equense - Se potessimo fare a meno della pioggia, lo faremmo, soprattutto per noi popolo del sud che conosciamo la bellezza del sole. Dalle nostre parti, una piccola quantità d’acqua ci mette subito il malumore, se poi ci sono scrosci infiniti o, come accade ultimamente, bombe d’acqua, stiamo male psicologicamente. Appena il sole viene meno, il cielo scurisce, l’aria diventa buia, anche noi cediamo alla malinconia, come se avessimo un problema da risolvere. Mentre al nord sono abituati a quel velo di fuliggine perenne che copre le compagne e le città, dalle nostre parti una semplice pioggerellina ci manda in crisi. Una volta le piogge cominciavano a ottobre. Ricordo che dopo la prima quindicina, cominciava a venire giù acqua, ma sempre in modica quantità, una pioggia per niente pericolosa, un toccasana per bagnare il terreno ancora arso dal sole estivo. Ora non è più così. La stagione autunnale è diventata la stagione delle piogge, abbondanti, straripanti e, se prima c’era una piccola tristezza per l’acqua che veniva giù e offuscava il sole, ora c’è una depressione e un’angoscia da previsioni del tempo.
 
Le controlliamo anche per uscire a far la spesa. Non basta più l’ombrello a ripararci dalla pioggia, ci vogliono ombrelloni per contenere l’acqua che viene giù con nubifragi, capaci di fare disastri idrogeologici. Con gli anni abbiamo perso il controllo del territorio, del suo assetto geologico. Abbiamo creduto che l’acqua fosse un bene prezioso, tanto prezioso da non poter diventare dannoso. L’acqua si è presa la sua rivincita. Ci ha gabbati tutti e ha lasciato il nostro piccolo paesello a forma di stivale, fradicio, rendendo il terreno un colabrodo. Ma come è possibile, ci chiediamo? Ed io mi chiedo come possiamo meravigliarci se per anni abbiamo continuato a tagliare i nostri alberi, rendendo il terreno così franoso, da farlo scivolare nelle valli come fa un castello costruito sulla sabbia. La nostra Italia, fisicamente, è una terra venuta su dall’acqua. Un tempo, al posto della pianura Padana e di gran parte del sud, c’era il mare. Le pianure sono di natura alluvionale, venute dai detriti accumulati dai fiumi nel correre giù a valle. Col tempo il cemento ha invaso tutto privando i terreni della loro vegetazione, ed è accaduto l’irreparabile. Se poi pensiamo che le case sono sorte in luoghi inadatti, come vicino al mare, negli alvei dei fiumi, sotto le montagne, su terreni franosi già per natura, si comprende come il paese sia a rischio idrogeologico da nord a sud senza fare alcuna distinzione. Bastano due giorni d’acqua perché i tombini fuoriescano, i fiumi si riempiano, le strade si allaghino, così le città. Dalle nostre parti la situazione non è certo migliore, forse meglio che altrove per trovarci un po’più su del livello del mare. Ma anche qui basta un po’ d’acqua per alzare il manto stradale e renderlo un terreno pieno di buche, soprattutto nelle strade che si inerpicano alla montagna, di rigagnoli che scorrono da ogni dove, di strade che sembrano mulattiere dove l’asfalto salta e l’acqua penetra fino a creare dei solchi. L’amministrazione pubblica dovrebbe avere uno stuolo di persone solo per controllare la viabilità, un altro per prendere atto dei pericoli cui si va incontro. Non ci si fa a ripristinare tutto se non si risolve il problema alla base. Sono inconvenienti non risolvibili dovuti al fatto che si è continuato a costruire, a scavare, a fare piani su piani senza tener conto della madre terra cosa dice. Si, la terra parla, ma noi non siamo mai in suo ascolto, presi dal chiederle sempre di più. Se la ascoltassimo, ci direbbe che dovremmo avere più cura di lei, lasciare più terreni alla coltura, avere il culto degli alberi, il culto delle siepi, dei fiori, dei frutti. Ma il vero disastro è anche quello di aver ucciso la geografia come disciplina, indispensabile per conoscere un luogo. A volte noto che persone anche colte hanno difficoltà ad orientarsi e a capire dove siano Le Cinque Terre o Ancona, cosa siano i calanchi o dove si trova il Campidano e ancora il Tavoliere, se il Tevere sia un fiume e il Trasimeno un lago o se Trieste sia italiana. Sembra un’esagerazione o una provocazione, ma non lo è. La geografia merita più attenzione soprattutto nel villaggio globale in cui siamo pervenuti. Se non conosciamo fisicamente il luogo dove viviamo come faremo con gli altri paesi? Come progettare e fare proiezioni per il nostro futuro, senza conoscere la nostra terra? Conoscere le coltivazioni di un luogo, il tipo di terreno, il clima, i venti, i prodotti, dovrebbe essere quasi un dovere di ciascuno. E al pensiero che la geografia quasi non la si studia più, che avviene con ridicole briciole di ore in tutte le scuole di ogni ordine e grado, si inorridisce. I problemi si risolvono con la conoscenza. Sapere che un terreno è franoso, andarci a costruire sopra, è da veri assassini. Non meravigliamoci poi della furia dell’acqua di un fiume che straripa, di un’ alluvione che allaga le città e le campagne, delle valanghe che arrivano a valle a spazzare tutto peggio degli tsunami. Abbiamo della natura un concetto romantico risalente all’800, come se fosse una bellezza da mettere in cornice e da ammirare. La natura è una matrigna per dirla alla Leopardi che, se non controllata, fa più disastri della guerra e noi, se non preparati, siamo impotenti davanti alla sua furia. Conoscere il proprio territorio è un dovere per amministrarlo bene. Bisogna conoscerne la rete stradale, il terreno e la franosità, le coltivazioni e le sue proiezioni nell’arco di un tempo; avere ben chiaro quello che possiamo investire in termini di colture, della sua realizzazione, della possibilità di prevenire disastri e soprattutto mettere tutti al sicuro, come dalla casa pericolante, o dalla strada dissestata, così come dalle esigenze di ciascuno. La pioggia forse ci deprime pensando a tutte queste cose cui andiamo incontro e a tutti questi problemi irrisolti affidati ai miracoli a al Dio che ci aiuti. Ecco allora che siamo più propensi a sperare che esca il sole e magari a non uscire di casa, piuttosto che progettare una città a prova d’acqua che, quando arriva, non ci metta l’angoscia e la voglia di bloccarci per paura di finire come i pesciolini in una vasca.

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