Da qualche giorno a Tulear, sulle bancarelle del mercato, ci sono grossi tuberi neri simili alle barbabietole, ma più slanciati. L’avevo assaggiato una prima volta qualche anno fa a Mangily, ma siccome sono curioso di sperimentare insolite esperienze gustative, ho chiesto a Tina di prepararlo ancora. Purtroppo, in questi nostri esperimenti culinari con il taro non siamo stati fortunati: il primo è andato bruciato dentro la pentola per una nostra disattenzione, mentre il secondo – a detta di Tina – non era di buona qualità. Del resto, da fuori non lo si poteva sapere. Una cosa che mi ha sempre incuriosito è che nel dialetto locale il taro viene chiamato “sondro” (pronuncia sungiu), che è lo stesso nome dato a una grossa lucertola grigia. Il nesso non sono ancora riuscito a trovarlo. Forse nemmeno c’è.
Il “sondro”, essendo una pianta acquatica, in Madagascar viene coltivato ad Andranovory, a Sakaraha, a Fianarantsoa e anche nei dintorni di Antananarivo. Ovunque vi siano acquitrini e paludi. A Manakara, per esempio, l’ho visto coltivato in un piccolo laghetto, sorvolato da variopinte farfalle. Un’immagina da sogno. Quando Tina lo sbucciava e lo tagliava a fette ho voluto assaggiarne un pezzo, che mi ha causato un pizzicore in gola. Solo dopo, su Wikipedia, ho letto che la radice cruda è tossica e che va bollita o fritta in sottili lamelle. Nel negozio di Mustafà, uno dei tanti Karana di Tulear che lavorano nel ramo del commercio al dettaglio, si trovano fette di taro fritte analoghe alle nostre patatine in sacchetto. Dopo averlo tagliato a fette, lo abbiamo fatte bollire in mezza pentola d’acqua con abbondanti aspersioni di zucchero. Se si pensa che lo zucchero viene messo anche sulle fette di ananas, che è dolce già di suo, a maggior ragione lo zucchero deve essere cosparso anche su quelle del taro, una volta bollite e disposte sul piatto.
Riguardo alla sua distribuzione geografica, praticamente l’unico posto nel mondo in cui non si coltiva è l’Europa, benché anche in Europa vi siano luoghi acquitrinosi. In alcune isole del Pacifico è l’alimentazione base e infatti “taro” è una parola di quelle parti. Essendo ricco di calcio, potrebbe andar bene nella dieta delle donne di una certa età, che di norma vanno incontro alla frattura delle ossa e forse, volendo essere un tantino complottisti, è proprio per questa ragione che in Europa non ha attecchito la sua coltivazione: le donne europee devono rompersi le ossa con l’osteoporosi perché se no gli ospedali non lavorano più, i chirurghi restano disoccupati e i profitti dell’industria del latte, responsabile della decalcificazione delle ossa, crollerebbero. Comunque sia, Tina dice che i comoriani ne consumano grandi quantità, a differenza dei malgasci, soprattutto nel periodo del Ramadam. Bisognerebbe indagare per sapere se le donne anziane delle isole Comore soffrono di osteoporosi, ma io non posso farlo, a meno che Tina non mi presenti qualche comoriano a cui chiederlo. Poiché non c’è due senza tre, noi faremo un altro tentativo, badando di non bruciare la pentola e sperando che il taro prossimo venturo sia di buona qualità.