Ho ripreso in mano con una certa diffidenza la mia Matilde Serao di dodici anni fa, ma non ho perso tempo a domandarmi perché avevo accettato la proposta della Utet: la protagonista che mi si offriva — fino allora per me quasi sconosciuta — mi attrasse alla prima lettura per quella che mi parve la qualità preponderante del suo carattere: il coraggio.
Il coraggio «uno non se lo può dare»: ebbene, lei se lo dava senza distinguerlo dal rimescolìo di vanità, ambizioni, sentimentalismi che la muovevano all’attacco.
Sopportarsi brutta
Il suo più elementare e costoso coraggio fu quello di sopportarsi brutta e nel modo che più contrastava con i suoi gusti. Esso non le venne mai meno fin da quando, specchiandosi nei tratti delicati di sua madre, fu quasi contenta di non somigliarle per meglio adorarla. Non conobbe mai — o quasi mai — la paura, e ce ne volle del coraggio quando, presentatasi alla redazione del “Capitan Fracassa”, indovinò subito alla prima occhiata l’ostilità, o, quanto meno, la compassione che il suo aspetto suscitava. La salvava la fiducia nella propria audacia («faccia di cuorno», diceva) e in una istintiva allegria che era forse bontà nativa. Ma non s’illudeva: più tardi, a proposito della sposa da scegliere per il principe di Piemonte, scriverà: «Una donna brutta trova difficilmente la sua strada e questa maledizione del Signore la perseguita sino alla morte».
Il guaio era che le piacevano gli uomini, a cominciare dal suo scomodissimo insolente marito. In queste condizioni continuare ad «amare l’amore» era un’altra prova del suo coraggio. Da ragazza aveva scritto di riconoscersi una natura «semivirile», poi non lo ripetè più, aveva capito che aria tirava in quella sciagurata «fin de siècle». Il coraggio può anche essere pazienza, e una enorme pazienza essa dovette spendere per disarmare colui che con ironica tenerezza chiamava «il guappo mio».
Era robusta e resisteva alla giornata faticosa che le imponevano la redazione del “Corriere di Roma”, le cure domestiche, la intensa vita mondana e i maneggi per ottenere il denaro necessario al giornale. Forse ci si divertiva. Già, e i romanzi? Beh, quelli erano il suo premio e la sua punizione.
Alla luce di questa vita onerosa va considerato l’atteggiamento di Matilde nei riguardi dei problemi femminili, le sue reazioni negative nei confronti delle donne che fanno politica (lei, sul giornale, la faceva: male, ma la faceva). Aveva scelto, e non lo nascondeva, un netto antifemminismo che la portò a deplorare la Kuliscioff, medico respinto dall’esercizio della professione. Per conformismo? Per acquiescenza coniugale? Per scetticismo? O per il coraggio della disperazione?
I tempi erano intransigenti, ignoranti: si schernivano selvaggiamente le suffragette inglesi, George Sand che vestiva da uomo era considerata una mala femmina e il ricordo delle dame illuministe del Settecento era spento. E poi l’ordine di Edoardo Scarfoglio, misogino nevrotico, era: non seccare. Semmai, formare comitati di beneficenza che sovvenissero, una tantum, le povere serve sfiancate, le madri senza pane. E, se le telegrafiste, le telefoniste, le maestrine avevano stipendi di fame, colpa loro: perché non si sposavano?
Fu a questo punto che una iraconda protesta di Matilde scoppiò: si trattava di difendere una certa Donati, una maestrina, appunto, calunniata, perseguitata, infine suicida. Anche lei, col suo diploma, avrebbe potuto subire la sorte della maestrina. Sposare? Bel rimedio. Nel 1901 essa scrive: «Io so, come tante altre donne sanno, che, come sono composte le leggi nella società moderna, non c’è felicità possibile per la donna, in qualunque condizione essa si trovi: né nel matrimonio, né nell’amore libero, né nell’amore illegale». Si parlava di divorzio e il vecchio coraggio della zitella Serao scoppiettava di sdegno. Ora nella sua tarda maturità, l’impeto avventuroso che la spingeva a farsi strada a gomitate affrontando ogni rischio, aveva preso il colore di un gelido scetticismo. Edoardo era sempre più futile e incomprensivo e quando, coinvolta nello scandalo Saredo, Matilde si senti sgomenta, il «guappo suo» così la descrisse a Febea: «la povera Matilde?... è donna e ha avuto un quarto d’ora di dolore profondo che è passato dopo quindici minuti». Vai a far capire a uno Scarfoglio che a una donna coraggiosa un quarto d’ora di recupero è più che sufficiente.
Si è molto riso, nell’ambiente giornalistico italiano della Serao, fondatrice del “Giorno”, il quotidiano inventato da lei, redattrice benemerita e congedata villanamente dal direttore del “Mattino”, suo marito: anche i figlioli, rimasti col padre, la canzonavano. Eppure tutti sapevano che questa iniziativa rappresentava l’infelice rivalsa di un’operaia licenziata: che oggi avrebbe richiesto almeno la cassa integrazione. Ma pochissimi, credo, la interpretarono come un atto di coraggio, molti ci scorsero un grottesco tentativo di vendetta. Si trattava, invece, di un atto di forza, e non si è forti senza coraggio. Matilde, del resto, era la prima a riconoscere lo scarso valore del suo giornale, senza mezzi, senza buoni servizi, senza firme spiccanti: ma almeno il solo che a Napoli annunziasse l’uscita di un suo nuovo libro, giacché “il Mattino”, dopo essersene smodatamente giovato, aveva praticamente seppellito il suo nome.
Impavida, andava avanti lavorando come sempre e scrivendo, purtroppo, cattivi libri che ebbero almeno il merito di dispiacere a Mussolini. Cavallerescamente (ché altra parola non sarebbe appropriata) volle che direttore del “Giorno” apparisse il suo nuovo compagno, l’avvocato Natale. E solo dopo la morte di lui, consentì che sotto la testata si leggesse Matilde Serao, direttore.
Leggende amatorie
Già estromessa dal “Mattino”, scriveva al vecchio amico Gegè Primoli di «lavorare molto per dimenticare i dolori amari di una vita non esente da errori». È chiaro che a questa confessione, a questo sottinteso pentimento, corrispondono le macroscopiche leggende tuttora circolanti sulla vita erotica della scrittrice. Gli italiani sono cosiffatti che ancor oggi, pur consentendo alle loro ragazze-bene di vivere le loro esperienze sessuali in un privato pied-à-terre, seguitano a citare barzellette boccaccesche sulle esigenze amatorie della matrona che i redattori del “Giorno” — magari suoi complici — chiamavano rispettosamente: la Signora, la nostra Signora.
Io stessa ho constatato la persistenza di queste sciocche abitudini, e, devo dire, con infinita noia.
Io stessa ho constatato la persistenza di queste sciocche abitudini, e, devo dire, con infinita noia.
"la Repubblica", 21 febbraio 1977