Simone Weil, Autoritratto (1930) |
«Non solo io penso che l’universo mi schiaccia, ma lo amo». «Rinunciare a tutto ciò che non è la grazia, e non desiderare la grazia». «Il tempo ci conduce sempre dove non vogliamo andare. Amare il tempo»... Per riparlare di Simone Weil, propongo uno sforzo prolungato e ripetuto di attenzione su queste poche frasi, scelte quasi a caso. Perché esso, molto più di una normale lettura, consente di penetrare subito le movenze interne, la temperatura e le ellissi del suo pensiero. Che è un pensiero tanto più grande e sterminatore, in quanto è sempre al limite del non-pensiero e dell’impraticabilità: è il pensiero che ci vuole. La mia idea è che il testo della Weil è un «testo d’uso», come un libro di cucina o L’imitazione di Cristo.
Quale testo? Qui, il testo dei Cahiers. Alla vicenda di Simone Weil (1909-1943), ho già accennato un’ altra volta (sulla Repubblica del 12 luglio 1981). Di essa bisogna ora ritagliare quel periodo, ormai già finale, che iniziò col soggiorno a Marsiglia e finì in un ospedale inglese, dove la Weil si lasciò morire di fame proprio quando stava iniziando la liberazione dell’Europa. Aveva passato la Settimana Santa del 1938 presso l’abbazia benedettina di Solesmes. Come sempre, era torturata da atroci mal di testa. Ma la liturgia e «l’eterno presente» del canto gregoriano resero quel soggiorno l’evento fondamentale dell’ultima parte della sua vita, segnata dalla «presenza personale di Dio», cioè di un «nulla» o di un «vuoto».
A metà giugno del 1939, i tedeschi entrarono a Parigi. La famiglia Weil decise di fuggire, raggiungendo prima Vichy, poi Tolosa, poi Marsiglia, col proposito di lasciare la Francia. Il disastro propiziò nella Weil l’esigenza di ripensare tutto ciò che aveva pensato e vissuto fino a li: a cominciare dal suo pacifismo, che ora le appariva un «errore criminale». Il soggiorno a Marsiglia si protrasse fino al 7 giugno 1942, e fu molto fecondo. Ad esso risalgono numerosi saggi sulla scienza, sull’Iliade e sulla Grecia in generale, sulla nozione di filosofia, sul concetto di valore, sulla lettura, sulla responsabilità della letteratura, sull’oppressione e sulla forza, ancora sulla scienza, nonché quelle meditazioni teologiche che verranno poi raccolte in due volumi postumi: Attente de Dieu e Pènsées sans ordre concernant l’amour de Dieu. Ma credo si possa dire che il meglio della sua riflessione fu affidata ai famosi Cahiers, i quali tuttavia ebbero una storia complicata.
Tra le numerosissime persone che la Weil frequentò in quel periodo, c’era il frate domenicano Jean-Marie Perrin, che era stato uno dei suoi interlocutori al momento dell’«incontro con Dio» e al quale il 7 giugno 1941 si presentò per chiedergli un lavoro di bracciante agricola; inoltre il filosofo cattolico Gustave Thibon, che era anche vignaiolo nell’Ardèche, e presso il quale andò a lavorare durante la vendemmia del 1941, massacrandosi di fatica e leggendo al suo ospite, la sera, i filosofi greci e i testi sapienzali indiani, a cui era stata iniziata dallo scrittore René Daumal.
Testamento letterario
Quando fu il momento di partire (per Casablanca e poi per gli Stati Uniti), fu a Perrin e a Thibon che la Weil consegnò gran parte dei suoi scritti e i quaderni marsigliesi. Non era una partenza come un’altra. Già nel '40, la Weil così aveva scritto a un amico di Vichy: «...benché non possa prevedere ciò che l’avvenire porterà, parto definitivamente. Non è solo a causa delle circostanze. Ho sempre pensato che un giorno sarei partita così». Sapeva che nulla sarebbe mai più stato come prima. La collocazione dei suoi scritti fu una specie di testamento letterario ed editoriale. A Perrin consegnò i «saggi spirituali». A Thibon undici quaderni tutti uguali, fittissimi di scrittura, che — insieme con gli altri sei, scritti più tardi in America e a Londra — costituiranno il corpo dei Cahiers.
Sarebbe complicato ripercorrere qui la storia editoriale di questi testi, come del resto di tutta la produzione della Weil. Ma una cosa va accennata. Nel 1947, Thibon trascelse dai Cahiers e pubblicò un piccolo libro, La pesanteur et la grace («La pesantezza e la grazia», o meglio «La gravità e la grazia»). È un piccolo libro assolutamente fulminante, benché Thibon fosse preoccupato dall’accoglienza che il cattolicesimo francese avrebbe riservato all’arroventata meditazione «mistica» della Weil. Ne consiglio caldamente la lettura. Ma nello stesso tempo è un libro del tutto arbitrario, perché concentra in un’unità testuale e di senso una scrittura spasmodica che tuttavia si vuole dispersa, discontinua e mescolata di altri temi e ossessioni: impoverendo enormemente l’orizzonte della Weil.
Più tardi, tra il '51 e il '56, l’editore Plon pubblicherà in tre volumi sedici dei diciassette quaderni, ma si tratta di un’edizione molto sommaria e priva di ogni apparato critico. Così si può dire che la prima vera edizione è quella a cui ora ha posto mano l’editore Adelphi con un primo volume di Quaderni, che ne contiene i primi quattro e che è stato quasi impeccabilmente curato da Giancarlo Gaeta; dico quasi, perché mancano le indicazioni di alcune fonti.
A prima vista, i Quadernipossono sembrare una scrittura privata: una raccolta di appunti, di pensieri a volte monchi e anche di trascrizioni. Ma è noto che la Weil pensava che dovessero venir pubblicati e che riteneva la forma di questi frammenti definitiva. Gaeta coglie bene il senso di questa frammentarietà quando nella sua introduzione afferma che essa corrisponde intimamente alla forma del suo pensiero filosofico: «Poiché tutto, a questo mondo, esiste “allo stesso titolo”, come nella pittura di Giotto, lo straordinario potere della scrittura dei Cahiers è nell’assenza di un punto di vista...; occorre che gli oggetti della riflessione si dispongano su piani molteplici, non coordinati gerarchicamente, lasciando libero spazio alla contraddittorietà dell’esistente...».
La mia idea è che ci sia anche un’altra ragione di grandezza. Innumerevoli studi hanno rilevato i rapporti del pensiero filosofico della Weil, non solo col platonismo, col marxismo e con la sapienza indiana, non solo con le matematiche moderne e con le geometrie non euclidee, ma anche con la filosofia accademica francese: con quella linea che da Maine de Biran, attraverso Largneau e Alain (suo maestro alla Normale) arriva a Merleau-Ponty. Di questi rapporti, come del resto di altri, sarebbe insensato non tenere conto. Ma l’essenziale è che nel vortice frammentato e vertiginoso dei Quaderni c’è una deflagrazione, dentro cui va in pezzi ogni possibilità di pensiero sistematico, unitario e finalizzato. Va in pezzi, anzi, il fondamento, la forma e la tendenziale cristallizzazione della cultura europea: tutto è rimesso in questione, anzi in sospensione nello spazio vuoto. La mia idea è, dunque, che, proprio per questa ragione il testo della Weil sia, oltre che un libro d’uso, uno dei massimi libri della filosofia (e della critica culturale e della sociologia e della psicologia) contemporanea.
Un bastone da cieco
Molto più difficile è riferire esaurientemente di che cosa parlano i Quaderni. E del resto non è neppure necessario. In un certo senso basterebbe rilevare alcune metafore costanti che sono come l’ago magnetico della bussola dentro lo scompiglio della ricerca e dello scavo: il «bastone da cieco» («Che quest’energia divenga un mezzo d’esplorazione del mondo — un bastone da cieco?», pag. 247), la «barca» («Una barca, strumento per afferrare interamente il mare, interamente il vento, e le stelle», pag. 209), la «leva»: «Nozione di leva applicata alla vita interiore (in funzione della nozione di energia)», pag. 259, la «bilancia»...
Ma volendo accennare, molto sommariamente e un po’ tradizionalmente, ai contenuti dei Quaderni, si può dire così: i Quaderni sono «un inventario della civiltà attuale» e contengono innanzitutto una critica della scienza moderna (spesso esemplificata nell’algebra), una comparazione della scienza moderna e di quella greca, e un’analisi dei rapporti di una scienza «tutta ridotta a segni» con la tecnica e con la «crisi della macchina» in Europa: «Macchina: il metodo si trova nella cosa, non nello spirito. Algebra: il metodo si trova nei segni, non nello spirito...». E per molti aspetti, questa critica della scienza si accosta a quella di Husserl e di altri pensatori degli anni Trenta. Di suo, oltre l’intensità e la concretezza, la Weil ci mette l’intuizione dell’origine religiosa di questa riduzione della scienza a gioco di segni: «L’uso dei segni in un primo momento è necessariamente religione», e l’intuizione della causa di questo stato di cose: «solo nei segni si può eliminare il caso, e far apparire la necessità».
I Quadernicontengono inoltre una critica del «pensiero collettivo» («Non esiste un pensiero collettivo»), una critica del lavoro industriale notevolmente originale rispetto a quella marxista tradizionale, una costante evocazione dell’arte, nutrita di notevolissime osservazioni (per esempio relative allospazio), digressioni sul progresso, sulla forza e sulla violenza, sul passaggio dall’«era industriale» all'era finanziaria», sull’hitlerismo e sulle sue somiglianze coi meccanismi di potere nella romanità, sulla guerra, sulla morte, sull’analogia, sull’apparire del mondo nell’esperienza, su quella nozione di «sventura» di cui si parla sempre a proposito della Weil, come del resto su quelle altre nozioni di «grazia», «pesantezza» o «gravità» a cui si è già accennato. Inoltre, i Quaderni contengono ampie esplorazioni del Bhagavad Gita e delle Upanishad, racconti e commenti di fiabe, intense e costanti rivisitazioni della filosofia platonica (in particolare del Timeo, del Filebo e della Repubblica) nonché della tradizione pitagorica (in particolare di Filolao), e naturalmente squarci di riflessione teologica e morale.
Ma mi rendo conto che un’elencazione, anche più dettagliata, non serve a nulla, e che in particolare non rende conto dell’incandescenza, dello stile filosofico-letterario della Weil. Forse è più utile citare un paio di esempi. Il primo potrebbe essere il seguente. Tutto questo primo volume è attraversato da una ricerca sul tempo, per così dire da una ricerca del tempo vivente. E fin dall’inizio la Weil intuisce che il tempo morto o pietrificato è il tempo dei segni e insieme dell’ossessione («L’ossessione è l’unica sofferenza umana», pag. 148, «Il tempo è il primo limite, l’unico», pag. 182, «Tutto ciò che turba l’uomo lo turba nel suo sentimento del tempo», pag. 204). La ricerca del tempo vivente è dunque superamento della «virtù negativa» e della parvenza ingannevole e alienata dell’ossessione: si tratta di accettare la «violenza del tempo» che «lacera l’anima», perché «attraverso la lacerazione entra l’eternità».
Questa visione del tempo è per un verso in rapporto con la rilettura di Platone e di Filolao, col tema del «limite» e dell’«illimitato» e del «finito» e dell’«infinito» nell’esperienza e e con quello di «ritmo», di una «musica» dell’esperienza che sta di là del «tic-tac» della musica meccanica, e quindi è in rapporto col tema di Dio e con la problematica teologica della Weil. Per un altro verso, poiché la filosofia della Weil è al tempo stesso una forma di e-sperienza personale e persino psicologica, questa visione è connessa con le costanti e durissime prescrizioni che s’imponeva: «Non essere mai vile davanti allo scorrere del tempo», con la necessità di vincere l’inerzia e la «pigrizia», e quindi con la terrificante disciplina e con la tensione a cui si sottoponeva.
Il secondo esempio potrebbe essere quest'altro, che allude a quella che si potrebbe chiamare l’«etica» della Weil, che è un’etica altamente paradossale, cioè all’altezza dei conflitti che l’epoca le proponeva. Questo primo volume è disseminato di proposizioni di questo tipo: «Nell’ambito dei sentimenti, più si dona, più ci si mette in una situazione di mendicità»; «A partire da un certo grado di oppressione i potenti arrivano necessariamente a farsi adorare dai loro schiavi»; «Desiderare l’amicizia è una colpa grave»; «La dedizione non è possibile senza asservimento»; «La virtù consiste nel custodire in sé il male che si patisce»; «Quel che si odia si potrà giungere ad amarlo»; «Mentire a se stessi risulta da una necessità vitale»; «Non ci si deve consolare con ciò che si ha di meglio in sé»; «E’ facile essere sulla croce quando vi si è inchiodati»; «E’ necessario essere molto puri per fare il male»; «La possibilità del male è un bene»; «Piuttosto che prendersi sul serio, peccare»... In generale, si tratta di una morale che si scosta notevolmente da quella cristiana, e il cui emblema potrebbe essere questo: «Chi fa l’angelo fa la bestia»...
Quando abbiamo perduto tutto
Tuttavia mi rendo conto che anche così adombrata, la filosofia della Weil è ancora altrove, e che quando si è detto tutto questo non si è detto quasi niente. La filosofia della Weil non sopporta sillogi e riduzioni a un senso. Me ne rendevo conto acutamente durante un convegno su di lei all’Istituto Stensen di Firenze (13-14 marzo), a cui partecipavano, tra gli altri, il teologo Jean-Marie Aubert, Gabriella Fiori, biografa italiana della Weil, Vilma Gozzini, Adriano Marchetti, Gilbert Kahn e Massimo Cacciari. Nonostante tutti gli sforzi da parte cattolica, la Weil non è collocabile dentro una normale prospettiva cristiana; e si può dire anche che, nonostante gli sforzi di Cacciari a quel convegno, la Weil non è normalmente collocabile neppure dentro la storia della filosofia.
Il problema, anzi uno dei problemi della Weil era di «fare del tempo un’immagine mobile dell’eternità»; e insieme la Weil sapeva di essere collocata in un punto altamente critico del tempo: «Non potresti desiderare di essere nata in un’epoca migliore di questa, in cui si è perduto tutto». Ora che ridiventa attuale, dopo che un’altra volta sono deflagrati i sistemi di pensiero lineari e conchiusi che ripresero corpo dopo la sua morte, la mia idea è che la sua «attualità» stia nella sua perfetta inutilizzabilità in direzione di ciò che si è perduto.
la Repubblica, 7 maggio 1982