Una testa piena di sogni


Un paio di giorni fa, uscendo di casa, Tina e sua figlia Annika hanno visto un uomo tutto insanguinato, accompagnato dalla moglie piangente, che si recava dal medico dopo aver preso alcune coltellate. Giovedì scorso un bambino è stato rapito da un adulto che si è presentato a scuola affermando falsamente di essere il padre. Del bambino non si è ancora saputo nulla e gli insegnanti delle scuole di Tulear sono nel panico. Su chi sia il mandante e su cosa facciano dei bambini, Tina sostiene che dietro i rapimenti di bambini ci siano i cinesi, che utilizzano il cervello e altri organi per i loro sporchi traffici. Io sono qui, in questa oasi di pace di Ampasikibo, immobilizzato, senza la possibilità di indagare e di fare servizi giornalistici degni di tale nome. Tina è molto paurosa quando si tratta di morti e feriti e mai mi accompagnerebbe a svolgere delle indagini. E poi, nel caso dei rapimenti, il suo istinto le dice che un vazaha che s’interessa di bambini scomparsi potrebbe essere considerato lui stesso responsabile dei rapimenti e finirla male, molto male, con un linciaggio senza via di scampo. Qui le do’ ragione. Tina ha un istinto formidabile e quando ci sono di mezzo bambini rapiti è salutare per gli stranieri stare alla larga.



E’ per questa mia impossibilità a trattare temi di cronaca nera, che sono l’anima del giornalismo, che mi vedo costretto a dare sfogo a quelle che i Trolls chiamerebbero elucubrazioni, ma che per me sono considerazioni di natura etico-filosofica, con risvolti pratici però. Da un paio di giorni infatti sono immerso in un vero dilemma, già altre volte accennato e che ha avuto novello impulso perché l’idea di realizzare un ristorante qui in Madagascar sembra essersi ravvivata. Che tipo di ristorante mi piacerebbe allestire? Cosa dar da mangiare agli avventori? Qual è il limite dei compromessi a cui devo scendere, in quanto animalista temporaneamente vegetariano, se voglio avere quel minimo di clienti che mi permetta di non andare in perdita?




Discutendone con Tina, ho visto attuarsi il detto: “Offri la mano e si prendono il braccio”. Siccome non sono né sordo, né cieco, vedo che il turista medio in Madagascar se non assaggia l’aragosta non è contento. Se poi c’è una bella grigliata di pesce, contento lo è ancora di più. Mi duole dirlo, ma è così. Indi per cui, oltre alla cucina italiana, di cui mi occuperei io all’interno del locale e a quella malgascia, di cui si occuperebbe Tina all’esterno del medesimo, ci sarebbe anche la possibilità che Daholy, il nostro “uomo all’Avana”, cioè a Mangily, gestisca la consumazione del pescato direttamente sulla spiaggetta privata, a beneficio dei turisti tradizionali, nonché ghiottoni e, per me, lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Esattamente quello che succede in Italia dove gli animalisti sanno dell’esistenza dei campi di concentramento e dei mattatoi, ma vivendo lontano da essi salvaguardano un minimo di serenità e di salute mentale.





Daholy sarebbe ben contento di far ciò, nelle vesti di piroghista, poiché già lo fa quando viene ingaggiato per portare clienti alla barriera corallina. Tina, cucinando sotto gli alberi con la “fatapera” a carbone i piatti tradizionali malgasci, che non includano carne e pesce, e il sottoscritto, cucinando con il gas nella cucina vera e propria, offriremmo comunque ai viaggiatori una vasta gamma di piatti appetibili. Se vogliamo guardare il bicchiere mezzo pieno, la cosa potrebbe funzionare. Ma siccome ho aperto alla possibilità che Daholy facesse grigliate di pesce, Tina ne ha subito approfittato per accampare medesimi diritti, senza limitarsi a voler cucinare il pesce, ma anche la carne, dicendo che se vogliamo avere clienti dobbiamo per forza offrire ciò che i clienti chiedono.





Temo che, realisticamente parlando, abbia ragione e ha anche aggiunto, da donna pratica qual è, che è meglio se lasciamo perdere l’idea del ristorante, viste le mie idee strampalate. In origine, infatti, si parlava di un B & B, letto e colazione, nuotata in un mare cristallino compresa. E basta. Se poi qualche cliente volesse anche mangiare dopo essersi immerso a cinque metri di profondità fra i coralli, una spaghettata gliela potrei anche fare. E, per i più esigenti, Tina potrebbe anche preparare una della sue prelibatezze malgasce.





La questione, osservata nella sua interezza storica, è se la minoranza di persone che si pone limiti etici debba sempre e comunque sentirsi straniera su questo pianeta, solo perché la maggioranza è composta di cadaveriani. Come facevano Pitagora e i suoi discepoli? Una vita morigerata e vegana, guadagnandosi da vivere facendo i precettori ai figli di qualche riccone, come nel caso di Seneca e Nerone. Ma nessuno di essi, ne sono più che certo, ha mai lavorato nel settore ristorazione. Prisco di Tesefro si faceva i calzari da sé con le cortecce di certi alberi, per non dover indossare sandali di cuoio animale. Un vegano di 2.000 anni fa. Ma anche lui non aveva velleità di cuoco. In India i giainisti gli unici lavori che possono fare sono nel settore terziario, giacché tutti gli altri li metterebbero in difficoltà con la loro religione induista, in cui l’Ahimsa, la non violenza, è di stretta osservanza.






Se fare il giornalista mi desse da vivere, non mi sarebbe venuto in mente di aprire un ristorante (e sono già un paio d’anni che ci penso), ma nessun giornale mi vuole, né io faccio molti sforzi per chiedere di essere assunto. Scrivo perché mi piace e già questa è una gratificazione, benché il proverbio dica: “Senza denari non canta un cieco”. Non so se alla fine della giostra aprirò un locale pubblico, non so nemmeno se avrò mai una casa di proprietà in Madagascar. Al momento, in affitto, mi godo la pace di questa assolata periferia piena di alberi, di uccelli e di sogni.




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