Sartre, il “martire” (Ernesto Sábato)

Nell'aprile del 1964 Sartre rinnegò la sua opera narrativa, giungendo a dire in un'intervista che un romanzo come La nausea non ha senso quando in qualche parte del mondo c'è un bambino che muore di fame. E pur ammettendo di continuare a pensare che gli uomini sono animali sventurati, sostenne che i loro mali metafisici debbono passare in secondo piano, come un lusso o un tradimento.
Queste dichiarazioni scatenarono una polemica che ancora persiste. Benché io condivida la preoccupazione di Sartre per la miseria e l'ingiustizia sociale, rifiuto assolutamente d'accettare la sua perentoria affermazione, che se fosse applicata coerentemente non solo invaliderebbe un romanzo metafisico ma tutta la letteratura e addirittura l'intera arte, giacché né la musica di Bach, né la pittura di Van Gogh, né la poesia di Rilke servono a salvare la vita di una sola creatura abbandonata. L'arte ha altre possibilità e altre missioni.
Tuttavia mi affretto a dire che, come sempre, e anche prima di giudicare la sua tesi, mi inchino innanzi a un uomo che è uno dei testimoni più rappresentativi del nostro tempo non solo per la sua lucidità, ma anche per il suo coraggio. Attaccato e insultato dagli stalinisti quando alzò la voce contro la loro stupidità e la loro prepotenza, attaccato e insultato dagli anticomunisti quando si dichiarò in favore dei popoli oppressi, Sartre ha mostrato invariabilmente la sua indipendenza di giudizio e ha dato l'esempio di ciò che dev'essere un grande scrittore: un testimone incorruttibile. Ossia, seguendo l'etimologia sempre rivelatrice, un martire.


Da Sartre contro Sartre in Approssimazioni alla letteratura del nostro tempo, Editori Riuniti, 1986 (ed. argentina 1974)

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