Cultura è esistenza. Occorre recuperare le antropologie delle civiltà per superare il tempo degli sradicamenti

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Pierfranco Bruni
ROMA - Recuperare l’antropologia delle culture nel tempo degli sradicamenti. Francesco Grisi ci ha insegnato che chi ha vissuto ha il dovere, il diritto, la responsabilità e la follia di testimoniarsi. Perché in ogni testimonianza c’è sempre quel dettaglio di storia che forma il mosaico della memoria e quindi dà vita al tempo e al senso del tempo.

Siamo lungo gli anni. In questi anni di agonia e di caduta del pensiero, debole o fragile che sia, rimane in piedi una impalcatura che non è, soltanto, l’immagine simbolica o un immaginario dentro la coscienza dei popoli e delle civiltà, ma è l’essere vivente della consapevolezza che il tempo e la parola restano nel destino del camminamento dei maestri. Questa concetto chiave è la tradizione. La tradizione per essere letta si serve della visione dell’antropologia. I maestri sono nel mantello della tradizione e si lasciano avvolgere da quel kitone che recita la storia della magia e del sacro. 

Nel segno della tradizione c’è una cultura che si è fatta strada, quella cultura che supera l’ombra, che attraversa il bosco, che filtra la luce tra gli intagli della foresta e si fa vita in un cerchio magico che ci porta oltre l’agonia alla speranza. Sì, lo sappiamo che siamo in un tempo di esasperazione ma anche di perdute ideologie. Un tempo antropologico ci attende. Non si può parlare di crisi perché le crisi sono fenomeni fluttuanti ma di decadenze si può chiaramente discernere. Ormai abitiamo la decadenza. Noi non apparteniamo ad una cultura. La cultura è altro da sé. Io, la mia scuola di pensiero, il cerchio nel quale abitiamo il nostro essere appartengono alla civiltà e non sono cultura ma spiritualità di una civiltà.

La tradizione è lì ferma con le sue maschere metaforizzate di Picasso o con le ombre e le grazie di Simone Weil o con il senso del divino che cerca l’uomo con le parole spagnoleggianti di Maria Zambrano, maestra di tradizione nella contemporaneità che ci conduce verso gli oblii e il disamore. 

Questa immensa tradizione che ha il senso della evocazione non vive nel sentimento del passato perché non è passato, non vive nel rigurgito della nostalgia o nel vomito del rimpianto. Il passato nella tradizione non esiste. Quella tradizione è il sangue pulsante che è venuto meno all’età della passione sbriciolata lungo le vie della modernità.

Nel corso di questi anni di ciò abbiamo discusso e sui solchi di queste parole abbiamo tentato di costruire non una struttura mentale ma l’eros del e nel nostro essere nella rivoluzione della vita. La rivoluzione è fantasia. Perché se la vita non è rivoluzione nella tradizione è soltanto il grigio che cerca nel contemporaneo la disarmonia di un sorriso che non è sorriso ma maschera di un pianto lacerante.

La nostra epoca, si diceva una volta, ha perso il senso e non conosce l’orizzonte. Certo è proprio vero, questa volta se Dio è morto in modo nicciano, e io non ci credo alla mortalità di questo Dio, è pur vero che l’uomo (è) finito. Ma se l’uomo  finito, raccontato da Giovanni Papini, si cerca nella sua storia si accorgerà subito che quel finito diventa indefinito ma occorre partire proprio dal senso del finito per sollevare l’anima dall’oblio. Anni, dunque, di agonia ma anche di non trasparenza nell’inquieto tragico vivere che ci riporta a De Unamuno e prima ancora a Cervantes con la sua follia e il suo superamento della realtà che giunge sino a Pirandello.

Che cosa ci potrà salvare? Che cosa abbiamo cercato nel corso di questi anni? La bellezza e la follia. Un’estetica che ci ha condotto ad una dimensione spirituale in cui la stessa spiritualità ha superato gli ancoraggi di quel materialismo storico al quale l’ideologia marxista ci ha condotto. Una ideologia che non conosce la bellezza e neppure il senso della grazia e tanto meno quella follia che è un codice estetico che ci fa entrare nella grazia dell’inconoscibile. Siamo in un viaggio che dovrà necessariamente porre al centro l’antropologia di un nuovo umanesimo. La cultura come bene culturale è un attraversamento delle antropologie delle civiltà. La letteratura. L’arte. Visioni e dimensioni nell’onirico segno di un tracciato il cui sentimento prioritario è dettato dallo scrittore che non si fa soltanto raccontatore di storie ma che è stato che è e che resta un viandante.

Noi siamo stati viandanti tra le pieghe del sogno. Resteremo ancora viandanti per porgere a chi ci ascolta la follia del sogno o quella pazzia degli amanti che si sentono unici nei segreti ma i segreti sono sempre segni rivelati. E la passione che abbiamo raccontato e che raccontiamo non è soltanto quella di una sensualità trafitta dalla fisicità, dall’eros che si fa carne e penetrazione di cuori e di corpi ma oltre ad essere questa, per noi, la passione è stata ed è la rivelazione della croce, il superamento del peccato, la solitudine di uno scrittore che conosce la difensiva delle partenze e il gioco dei ritorni.

La passione non è soltanto amore e morte. E’ anche il calvario e forse il tradimento consumatosi tra gli ulivi del Getsemani. Ma quale Cristo avrebbe avuto voce senza la figura di Giuda e Giuda avrebbe avuto un nome nella spirale della rivelazione di Cristo senza la capacità di Claudia nel cercare di convincere Pilato? Abbiamo perso anche il senso della persuasione perché si è interrotto il dialogo e lo scontro tra Cristo e Giuda. Che cosa ha significato il suicidio di Giuda? E senza questo suicidio il disegno della storia occidentale si sarebbe posto il problema della vita violata e della morte inviolabile nell’intreccio tra Oriente e Mediterraneo? La letteratura non conosce la teologia, non la può conoscere, non la deve conoscere e tanto meno deve pretendere di entrare tra le maglie della teologia. Perché la letteratura è mistero, è l’indefinibile mistero che circonda la vita dei mortali e pone i personaggi nell’immortalità del mito. 

Pensiamo ai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Il limite tra mortalità e immortalità in una grecità assoluta in cui il mistero è divino ma non cristiano è un inciso che resta. La nostra temperie ha avuto la capacità di sconfiggere anche il limite realtà – mito lungo le sponde della mortalità - immortalità. E tutto questo non è forse dovuto ad un vuoto nel quale il cosiddetto modello progressista ha preso il sopravvento? L’età del progresso non è l’età della ragione. L’età del progresso si è trasformato, senza i codici della tradizione, nell’età del consumismo conformistico.

Le meccaniche della scrittura possono essere una liturgia nell’incoerenza dei linguaggi ma non possono fare a meno di quella tradizione fatta di costante testimonianza tra l’essere e il tempo. In questo essere  il tempo si inserisce nello spazio interminabile e indefinibile che diventa la cifra di una poetica che Bachelard ha definito come la poetica dello spazio. Dovremmo forse recuperare questa poetica dello spazio in una solitudine dechirichiana che ci dovrebbe permettere di vivere il grido della pazzia tra i colori di Van Gogh e lo sguardo  straziante di Munch. Ormai non siamo più uomini del perdono. Siamo stati perdonati ma non condannati. Siamo in uno stato di perenne processo. Perdono?

Ci poniamo davanti a questa parola perplessi, sgomenti e restiamo in attesa, ma dovremmo poter sconfiggere l’origine del peccato con le parole del Cristo pronunciate a Maria Maddalena. Maria Maddalena cammina tra di noi e senza alcun peccato ma in un processo che chiede una riabilitazione che non potrà esserci perché mai è stata condannata perché mai ha commesso peccato. Il peccato non esiste. Il materialismo non conosce il peccato, non conosce il perdono perchè non conosce la grazia. 

È in questo materialismo che naufraga il moderno ma non scompare perché cerca una deriva e, nonostante tutto, continua nel suo naufragio. La tradizione è sempre oltre. Parlo spesso di una antropologia di una nuova testimonianza spirituale perché è qui che si riscatta una saggezza dell’essere.

È nella continuità tra ciò che abbiamo ereditato tra l’Occidente e l’Oriente e ciò che viviamo in un tentativo di superamento e di sarcastico compreso tra il moderno e il contemporaneo. A volte la contemplazione ci viene in aiuto. Il cristianesimo deve sconfiggere il senso del peccato perché dovrebbe vivere in una costante dimensione di grazia dentro il segno della contemplazione che tocca la spiritualità.

La contemplazione non è un miraggio ma non è neppure il restare seduti su uno scoglio e osservare semplicemente le onde di un mare che cercano di ammorbidire la roccia. L’essere contemplanti, dunque, non è ,soltanto, l’essere pensanti. E quello che riesci a vedere al di là della linea di congiunzione tra il cielo e il mare. E sapere che ogni attesa non è una vana pretesa ma è cercare che qualcosa possa toccare il silenzio. L’essere contemplante è il gioco di una rivelazione che non smette la pratica di una alchimia antica e misteriosa che solo gli sciamani in alcune culture possono tramandare. Tramandare è vivere la tradizione dell’antropologia.

Abbiamo bisogno di questo forse? Ma di cosa necessita questo tempo agonizzante e moderno? Non siamo intellettuali ciechi, eppure abbiamo sempre creduto alla forza di Tiresia ma non siamo degli indovini perché nella nostra storia - tempo c’è il destino che guida i passi della profezia. Come Virgilio, ma viaggiatori come Ulisse, traditi e traditori ma profeti, come avrebbe detto Ezra Pound.

E come il poeta dei Cantos noi difendiamo le nostre idee vincenti o sconfinati come possono essere o sconfitte, ma sono le nostre idee, che hanno la nobiltà della conoscenza e di un sapere che ci deriva dalla sacralità di quella tradizione che vive perché intercede con il mito. Non può esserci sacro senza il mito. Ovvero non può esistere Grecia senza Roma e viceversa ed entrambe non possono convivere senza Gerusalemme. Le idee sono l’acqua del nostro cantico quotidiano e in questo cantico ci sono i cantici che porgono le loro brocche in una metafora che è sempre nella includenza di una metafisica dell’anima.

Certo noi siamo per la ragione poetica, come dice Maria Zambrano, perché è la tradizione che vince e quando questa viene accantonata o viene separata dal resto si assiste alla recita dell’impotenza in un teatro che non è né pirandelliano né ioneschiano ma precipita in un Kafkiano applauso in cui l’assurdo di Camus prende il sopravvento. Siamo nell’assurdo e comunque siamo in una confessione impolitica come direbbe Thomas Mann.

Ma chi sa se gli applausi dureranno nei secoli? Siamo convinti, però, che cadute le maschere non ci sarà più il recitativo dell’uno nessuno e centomila ma di una recita a soggetto in cui si assisterà, in modo macabro, senza estetica dannunziana al trionfo della morte. Anche in politica o nella politica della contemporaneità si attraversano questi attanagliamenti. C’è del macabro e non dell’ironico nella politica dei nostri giorni. C’è una forma di ignobile mediocrità che a volte tocca le corde dell’inverosimile. Ma il tempo della modernità è una disarmonia anacronistica. Una modernità che sembra incancellabile  che  domina lo scenario. Abbiamo vissuto anni lunghi e stagioni corte ma abbiamo cercato di individuare l’indefinibile per trasformarlo nel possibile e l’intreccio tra politica e cultura ha vissuto il suo dramma e continua a vivere il suo dramma, ma noi imperterriti siamo convinti che una buona politica non può che nascere da una cultura che abbia la sua singolare sapienza nella saggezza. Siamo figli di Seneca ma anche di Cristo. Siamo consapevoli di Cicerone ma siamo anche convinti assertori di Agostino. Difendiamo Giuda ma camminiamo sui solchi di Paolo. 

Siamo consapevoli che Nerone abbia incendiato la sua coscienza di un fuoco fatuo ma non nascondiamo la sua eredità da Caligola.

Siamo dentro quell’al di là del bene e del male testimoniato da Nietzsche ma siamo i portatoti di quel concetto di salvezza di matrice, certamente, evangelica rimarcato da Dostojevski in una cristianità kierkegaardiana e ci sentiamo portatori di una eredità che è quella dell’antico ritorno e di una Itaca che continua a parlare il suo linguaggio in una provvidenza e profezia che vedono Enea come protagonista nell’annuncio di un’era cristiana. E tutto questo è dentro il cerchio, il quale ha la sua allegoria vichiana che ha rimandi e trapassi. Siamo oltre ma siamo anche dentro. Siamo altrove ma siamo anche prima di questo altrove. Ecco come la tradizione ritorna nelle sue distinzioni. Le distinzioni ci sono, e perché non dovrebbero esserci, noi siamo i combattenti non della verità ma della consapevolezza che ci sono le verità ma queste verità non possono dialogare soltanto con la ragione perché la ragione porterebbe all’impazzimento dell’incomprensione senza la sintesi di Erasmo di Rotterdam.

La tradizione è la spiritualità di una civiltà che si fa anima, cuore, viaggio. Siamo qui per dare il senso, appunto, ad una testimonianza e durante questi anni difficili ci siamo incamminati tra le vie del nostro pensare con le parole che avevamo, con le scuole che avevamo vissuto e con i maestri che ci hanno indicato le lune da seguire nelle notti buie di vento e con i mari che avevano l’ululato delle tempeste. Ne siamo usciti, dalle tempeste, fortificati con il coraggio che ogni scelta ha dentro di sé il rischio, non di vincere, ma di perdere e di smarrirsi.

Noi non ci siamo perduti, forse ci siamo smarriti qualche volta. ma ci siamo sempre ritrovati perché sappiamo che guardare sempre negli occhi e tenere alte le vele nel mare aperto ci permette (ci permetterebbe) di  proseguire lungo il nostro andare. È vero, chi vive ha il dovere di testimoniarsi per ciò che ha fatto per ciò che fa. Resta agli altri raccogliere questo seme. Noi siamo seminatori, non abbiamo mai pensato di raccogliere granelli di terra. Il nostro compito continua d essere quello di seminare. Seminare con la bellezza dell’ironia e nel rischio che ci porta il coraggio di dire sempre e ovunque la nostra, dico la nostra, possibile verità. Una sfida di verità e nel tentativo delle verità. In queste verità la letteratura e l’arte sono il sottolineato di un mistero che non smetterà mai di restare tale.

Ecco allora il nostro cerchio. Questo cerchio infinito che non è fatto solo di parole ma di amicizie, di affetto, di amore e di un sorriso che ha la forza degli uomini che non abbandonano le proprie zattere lungo la traversata anche in vista dei nubifragi. Così è al di là di tutto oltre tutto. Noi siamo il cerchio che è magia nella sacralità. Una sacralità nella quali ci sono gli sguardi, gli occhi, la vita. Ciò è la verità di una antropologia che assorbe i simboli e le metafore nel racconto di una cultura che è esistenza. Occorre recuperare le antropologie delle civiltà per superare il tempo degli sradicamenti.

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