La prima volta che sul “Mondo” apparve la parola 'Longanesi' fu nove anni dopo la fondazione del settimanale di Mario Pannunzio, nel numero dell' 8 ottobre 1957. Leo Longanesi era morto dieci giorni prima, nel suo ufficio di via Bigli, a Milano. Nell'articolo che lo rievocava, veniva spiegato come mai su quel giornale si fosse "per anni evitato perfino di fare il suo nome". Non si trattava, faceva capire Pannunzio (l'articolo, non firmato, era suo), di una delle solite autocensure che appartenevano all'aspro repertorio del settimanale, e che consistevano nel rifiutare agli avversari l'onore di una citazione. Qualche volta, quando era proprio indispensabile nominare una persona o una testata non accetta, “Il Mondo” ne sbagliava infatti la grafia ad arte, come per un refuso. Per Longanesi no: nel suo caso, precisò Pannunzio, "il silenzio ci sembrava il modo migliore per rispettarlo". Era stato insomma un espediente generoso per non scendere in polemica con un uomo di cui si era amata, e si desiderava conservare, un'immagine diversa.
Arrigo Benedetti - fondatore di due settimanali, “L'Europeo” e “L'Espresso”, che tecnicamente discendevano, al pari del “Mondo”, da una costola longanesiana - si comportava in maniera analoga. Di Longanesi non amava parlare. Il creatore dell'“Italiano” e di “Omnibus” era stato per lui una felice meteora professionale e umana, durata sei anni, "fra il maggio del 1937 quando uscì “Omnibus”, appunto e la splendida notte del 25 luglio 1943: l'ultima che passammo insieme, scossi da un' autentica commozione, animati da comuni speranze".
Se un uomo scomparso a soli cinquantadue anni - Longanesi era nato a Bagnacavallo (Ravenna) nel 1905 - veniva considerato un sopravvissuto da due fra i suoi maggiori allievi, un motivo ci deve essere, e anche molto serio. Risiede qui, almeno per me, l'enigma che circonda la figura di quel geniale inventore di giornali che fu Leo Longanesi.
L'enigma mi si ripropone nel leggere il volume che allo scrittore ed editore romagnolo hanno dedicato due suoi ammiratori incondizionati: uno, Indro Montanelli, di appena quattro anni più giovane di lui, l'altro, Marcello Staglieno, appartenente a una diversa leva, quella dei "discendenti" o dei discepoli postumi (Leo Longanesi, Rizzoli, pagg. 421 con illustrazioni, lire 29.000). Aspettarsi che un libro, anche un bel libro traboccante di documenti inediti, riesca a fornire una risposta a ogni curiosità su Longanesi e sulle sue metamorfosi politiche e di costume, significherebbe attribuire ai biografi poteri d'indagine che nemmeno gli psicoanalisti detengono. Non stupirà quindi che "la verità sul caso Longanesi" - questa specie di romanzo artistico-politico-editoriale ambientato nell'Italia della prima metà del secolo - resti ancora in gran parte da accertare. Montanelli e Staglieno le hanno girato intorno, a quella verità, lungo l'arco di quasi un quarantennio (dai primi anni Venti ai tardi Cinquanta, dall' Italiano al Borghese), l'uno con la partecipazione del testimone, l'altro col puntiglio dello studioso, e hanno finito per comporre una tipica "opera aperta". Non sono cioè riusciti a scolpire un monumento a Longanesi, per loro e nostra fortuna.
Può darsi che neppure se lo proponessero. Comunque, il soggetto non si prestava. Il personaggio era incoerente, emotivo al massimo, docile preda di umori contingenti e impensati, continuamente posseduto (sono ancora parole di Pannunzio) da una "volubile polemica", animato da "una vitalità tanto più prepotente quanto più inquieta". Si può definirlo un artista, specie se si dà al termine quel senso ottocentesco e "strapaesano" che implica imprevedibilità, bizzarria, tendenza a superare - un po' per disprezzo e un po' per reale incapacità di distinguerli - i confini della logica. Si aggiunga una cronica predisposizione ad esaurire se stesso e l' universo in uno humour amaro o surreale. Con simili connotati - che Montanelli e Staglieno rintracciano nella sua vita, quasi giorno per giorno - Longanesi si trovò a cavalcare due regimi, il fascismo e il dopo-fascismo, in una posizione di alta responsabilità, qual è quella di un "opinion maker" (oggi si dice così), di un elaboratore di strategie politico-propagandistiche, di un creatore di giornali, di un selezionatore di talenti; in una parola, di un educatore. Quanto poco adatto fosse un temperamento come quello di Longanesi a svolgere simili compiti è facile capirlo. Non poteva che nascerne un paradosso, quello che segnò la vita di Longanesi e ne rende enigmatica la memoria. È un paradosso ormai proverbiale, ma tanto vale ripeterlo: durante la dittatura fascista egli si comportò spesso da oppositore in nome della democrazia, ma appena tornata la democrazia la avversò in nome della trascorsa dittatura, quella stessa di cui aveva a suo tempo offerto una parodia indimenticabile. In queste due fasi salienti della sua vita - il suo antifascismo "da fronda" e il suo filofascismo venato di nostalgia - Longanesi fu sempre all'opposizione, sempre in prima linea, sempre circondato da uno stuolo di seguaci, parecchi dei quali - pensiamo per esempio a Giovanni Ansaldo, a Camillo Pellizzi, ad Alberto Savinio, ad Arrigo Cajumi, fino a Giuseppe Prezzolini - di lustri e decenni più anziani di lui. Gente esperta. In qualche caso (Ansaldo, Prezzolini) anche cinica. In mezzo a costoro, l'inventore dell'“Italiano”, di “Omnibus” e del “Borghese” esercitava cura d'anime.
Un paradosso nel paradosso. Verso la fine del libro si racconta di uno sfogo che un certo giorno degli anni Cinquanta Arrigo Benedetti - il più espansivo fra i suoi discepoli "critici" - fece a Longanesi, che gli rimproverava pose progressiste e lo definiva "giacobino". Ma come? - obiettò in sostanza Benedetti. - Nel 1937, quando da Lucca venni a Roma per aiutarla a preparare “Omnibus”, io ero un ingenuo giovane fascista. Fu lei a farmi nascere dei dubbi, a indirizzarmi verso la fronda, a spingermi sulla strada dell' antifascismo. Come può accusarmi, adesso, di aver seguito quella strada con coerenza, di non aver tradito i suoi consigli? La stessa domanda avrebbero potuto rivolgerla a Longanesi tanti intellettuali italiani, e soprattutto quelli che chiameremo i "longanesiani di sinistra": da Pannunzio a Flaiano, da Gorresio a Brancati, da Soldati fino - per certi aspetti - a Moravia.
Fra il 1935 e il '40 la scuola di Longanesi fu, come ricorderà uno di loro, "un esempio di indipendenza, di libera critica, di dissidenza". A bottega da lui impararono come s' impagina un giornale, come si taglia una fotografia; come una litografia dettata da uno humour sottile può trasformarsi, messa in copertina, in un richiamo "di massa". In campo professionale, trovarono in lui un inventore felice e un imprenditore moderno. In politica, un uomo libero fino all' insofferenza e all'incontentabilità. Ma dopo?
"Quello che è poi avvenuto nel suo animo", scrisse Pannunzio in quel suo unico articolo su Longanesi, "non potremo mai spiegarcelo". "Il vero Longanesi", gli farà eco, vent'anni più tardi, Mario Soldati, "è rimasto un segreto per quasi tutti", alludendo, con quel "quasi", a Moravia. L'autore degli “Indifferenti”, più versato in psicologia, si è infatti avventurato fino ad ipotizzare "un misterioso trauma politico" che lo scrittore romagnolo doveva aver subìto nell'adolescenza, trasferendosi dall'ardente clima patriottico-socialista di Bologna, sua prima città di adozione, nella scettica Roma del fascismo con le ghette. Generose congetture, che si perdono nel vortice delle contraddizioni di cui Longanesi è stato insieme sperimentatore e cavia.
Di contraddizioni, Montanelli e Staglieno ne suggeriscono grappoli: Longanesi era legato in maniera quasi rissosa alla borghesia della Belle Epoque - basta vedere con quanto solidale umorismo ne disegnava i fasti - e tuttavia amò inizialmente quel "mussolinismo" che ne decretava il tramonto. Era nostalgico dell'Italia di Giolitti, eppure scherniva la Storia d'Italia di Croce, che del decennio giolittiano aveva cantato le glorie. Esecrò per tutta la vita i vezzi, gli artifici e le presuntuose viltà dei letterati italiani, ma con i letterati italiani più tipici, quelli della “Ronda”, intrecciò rapporti strettissimi. Fondatore, accanto a Maccari, di "Strapaese", guardò poi, proficuamente, ad esperienze europee per dar vita ai suoi giornali e introdusse in Italia alcuni grandi nomi della letteratura internazionale. Aveva (lo ha raccontato Soldati) "un estremo, assoluto, romantico penchant per le donne", eppure "non perdeva mai l' occasione per sostenere che, le donne, bisogna picchiarle". Affermava - suprema incoerenza - che "gli inglesi vinceranno la guerra" e "i tedeschi la perderanno" proprio nel momento in cui (raccontano gli autori) "lui, la guerra, la faceva a “Fronte”, una rivista che il Min. Cul. Pop. stava preparando per i soldati". A propagandare questa massa disordinata di sillogismi alla rovescia intervenivano il fascino personale, garantito da un'insolita intelligenza e rinforzato da un attivismo irrefrenabile.
È perfino arduo elencare le qualifiche che Longanesi si guadagnò fabbricando libri e giornali, scrivendo, titolando e disegnando per una vita intera. Ci si provò una volta un suo allievo, Giuseppe Trevisani, e la lista risultò iperbolica: scrittore, pittore, tecnico, disegnatore, antiquario, tipografo-editore, giornalista, polemista, direttore, esteta, politico, copywriter, bibliomane, artista, idea-man, cronista, causeur, critico, umorista, pubblicitario, epigrammista, narratore... Fece tutto questo. Tutto, tecnicamente parlando, benissimo. E tutto, almeno come tornaconto personale, a fondo perduto. Longanesi - questa biografia a quattro mani ne fornisce una prova di più - era il contrario d' un opportunista. Posseduto da un inguaribile "cupio dissolvi", intento a "odiare il prossimo suo come se stesso", era immune da tentazioni arrivistiche. Infatti, non arrivò a nulla. Nessuno gli diede un quotidiano da dirigere, una ricca casa editrice per estendervi l'ala del suo talento, un sontuoso stabilimento tipografico nel quale sperimentare le sue doti eccelse di disegnatore di caratteri e di incisore di testate (eppure, sul biglietto da visita s'era fatto scrivere: "unico successore di Bodoni in Italia"). Non ebbe mai un premio. Non diventò accademico di nulla. Trincerato in quel suo "elegante e vizioso qualunquismo" che Pannunzio gli rimproverava, lavorò senza protezioni di sorta.
Quasi mai le sue invenzioni hanno avuto degni continuatori: pensiamo soprattutto al “Borghese”, l'ultimo prodotto della sua operosità di giornalista, un'impresa già patetica sul nascere, oggi caduta - e meritatamente - in clandestinità. Benché esperto in molte specialità, quanto a furberia - in un paese di letterati furbissimi - Longanesi era poco più che un novizio. Ciò aiuta a spiegare perché tanti intellettuali in buona fede, e tutt'altro che sprovveduti, assecondarono fino all'ultimo le sue ubbie, combattendo al suo fianco battaglie impossibili. E adesso, lungi dal maledirlo, lo rimpiangono.
“la Repubblica”, 23 dicembre 1984