Istanbul
L’estate 2016, in Turchia, sarà ricordata come la stagione delle purghe. Tra Istanbul e Ankara, a definirla così sono già molti intellettuali e analisti che accettano di dire due parole solo a microfoni spenti. Molti di loro sono stati sospesi dal loro incarico, anche se sperano di tornarci, ad altri è stato impedito uscire dal Paese. Non sono finiti dietro le sbarre perché non sono affiliati al movimento Hizmet di Fetullah Gulen – predicatore autoesiliatosi in Pennysilvania che il governo accusa di essere stato il regista del tentato golpe del 15 luglio, l’unico fallito nella storia della Turchia. Attraverso i poteri straordinari che si è attribuito dichiarando lo stato di emergenza, il presidente Recep Tayyp Erdogan vuole ora sostituire con figure più leali al governo tutti i gulenisti presenti nelle istituzioni e nella pubblica amministrazione, persone che, ironia della sorte, sono state piazzate in quelle posizioni proprio da lui quando, fino al 2013, era alleato di Gulen. «Rimuovere i gulenisti non è illegittimo, ma sarebbe necessario sostituirli con persone professionali, qualificate e mantenendo un certo pluralismo», dice a pagina99 Barkay Mandiraci, analista dell’International Crisis Group di Istanbul. «Ma la fretta con la quale Erdogan sta portando avanti questo processo non sembra andare in questa direzione. L’unico criterio che conta è la lealtà al leader», aggiunge Mandiraci.
Il sultano è vicino all’ultimo colpo
L’analista dell’International Crisis Group descrive quella in corso come una vera e propria ristrutturazione delle istituzioni turche. «Erdogan farà di tutto per trasformare il suo Akp in un partito Stato» conclude Mandiraci. E osservando gli altri partiti turchi è difficile immaginare che qualcuno possa mettere il bastone tra le ruote al progetto del presidente.
Con meno di vent’anni alle spalle, il partito della giustizia e dello sviluppo, Akp, sembra quindi a un passo dalla vetta di quella scalata politica iniziata nel 1998, quando il partito in cui militava l’attuale presidente della repubblica e allora sindaco di Istanbul, il Refah Partisi, venne sciolto perché minava la laicità dello stato strenuamente difesa dai militari. In seguito alla purga da parte dell’esercito contro il Refah, Erdogan e il suo alleato Abdullah Gul fondarono l’Akp, impostandolo su basi in linea con quelli imposti dall’ancora forte establishment militare kemalista. «Sin dalla sua nascita, l’Akp fece del pragmatismo la sua caratteristica principale, grazie alla quale, pur affermandosi come un partito proveniente dalla tradizione politica islamista, ha adottato un’agenda favorevole all’ingresso in Europa e al libero mercato, integrando al suo interno anche kemalisti», spiega Lea Nocera, turcologa che insegna all’università Orientale di Napoli. Nel novembre 2002, a un solo anno dalla sua creazione, l’Akp vinse le elezioni politiche con oltre il 34% dei voti. E da lì fu un crescendo di successi.
Attivismo quotidiano
A dare forza elettorale al partito è anche una caratteristica peculiare dei militanti politici islamici turchi, ossia quella di essere attivi non soltanto in occasione delle tornate elettorali, ma anche nella quotidianità, quando tengono sotto controllo l’elettorato e i potenziali votanti. Ed Erdogan ha avuto buon gioco nell’applicare questo modello al suo nuovo partito in quanto nella sua attività di amministratore a Istanbul aveva maturato un’ampia esperienza in proposito. Secondo dati riportati da uno studio pubblicato nel 2015 dal professor Luca Ozzano, il partito ha ufficialmente 300 mila attivisti e oltre 3.600.000 iscritti: una cifra ritenuta sostanzialmente attendibile, pur tenendo conto della tendenza turca di gonfiare i numeri degli iscritti ai partiti.
Importantissimi sono anche i network di rapporti personali, più o meno informali, che si intessono fra membri di una stessa comunità o di una stessa confraternita all’interno del partito. Queste reti non sono solo mezzi attraverso i quali si svolge la socializzazione, ma hanno un ruolo fondamentale per la rappresentazione degli interessi della nuova classe sociale borghese che rappresenta il fulcro dell’Akp. Questi rapporti di natura personale gettano però ombra sulla democrazia interna al partito, dove, con il passare degli anni, è cresciuta la tendenza al personalismo, rappresentata al massimo dalla gestione accentratrice di Erdogan.
«In questi anni, l’attuale presidente ha fatto piazza pulita non solo dei suoi oppositori interni, ma anche delle figure che, guadagnando spazio nel partito, hanno rischiato di rubargli visibilità», spiega a pagina99 un giovane docente dell’università Bilgi che chiede con insistenza di mantenere l’anonimato. «Basta fare due chiacchiere con i parlamentari che si erano dichiarati contrari alla guerra in Iraq, non seguendo la linea imposta dal partito», prosegue l’accademico, ricordando che buona parte di questi indisciplinati non è stata ricandidata alle elezioni del 2007. «Ci sono state diverse fratture interne al partito. In primis quella con Gulen, ex alleato più aperto nei confronti dell’Unione europea. E poi quella con Gul, (presidente della Repubblica dal 2007 al 2014, ndr) un moderato rispetto a Erdogan, che non condivideva il disegno più autoritario del suo successore», aggiunge Nocera, ricordando non solo l’allontanamento, lo scorso anno, di figure accusate di essere vicine a Gulen, ma anche il più recente licenziamento, lo scorso maggio, del premier Ahmet Davutoglu.
I rapporti tra quest’ultimo ed Erdogan non erano certo idilliaci, in primis a causa del dissenso sulla riforma costituzionale tanto voluta dal presidente per mettere da parte, una volta per tutte, il dualismo premier-presidente, naturalmente a vantaggio di quest’ultimo. Anche se attualmente Erdogan non ricopre ufficialmente alcuna carica dentro il partito, il seguito di cui gode gli ha permesso di fare fuori Davutoglu, sostituito con il più leale Binali Yıldırım, ex ministro dei trasporti già coinvolto nello scandalo corruzione del 2013.
Anche se per il suo agire politico di uomo solo al comando Erdogan è stato più volte accusato di abusare del suo potere, interferendo in dinamiche non di sua competenza, nulla, all’interno del partito, sembra mettere in dubbio la sua tenuta. Eppure l’Akp è tutt’altro che un monolite, come mostra la comparsa sul mercato editoriale di “Karar”, un giornale nato all’interno dell’Akp da una frangia critica nei confronti di Erdogan. Per tenere compatte le fila, dopo lo sventato golpe, Erdogan sembra ora intenzionato a ricompattare il partito sul modello originale, cercando di recuperare i rapporti con le anime storiche dell’Akp, anche a costo di marginalizzare figure provenienti da altre ali. Un primo segnale dell’accoglienza che potrebbe trovare questo tentativo presidenziale è arrivato proprio dopo l’inizio del golpe, quando Gul non ha atteso più di un paio d’ore per mostrare pubblicamente il suo sostegno a Erdogan.
Potrebbe essere quindi la vecchia guardia riunita a festeggiare la trasformazione dell’Akp in partito Stato. L’unico soggetto che potrebbe mettergli i bastoni tra le ruota è l’esercito che, come ha mostrato quanto accaduto nella notte del 15 luglio, non è coeso nel sostenere Erdogan. O almeno non lo era prima del processo di epurazione con il quale il governo sta cercando di fare definitivamente pulizia dopo anni passati a depotenziare i generali, in primis i kemalisti legati ai principi del fondatore della Turchia laica Kemal Ataturk.
«Ma ora l’esercito è in crisi e sottomesso», fa notare Dani Rodrik, docente all’università di Harvard. I quasi 10 mila soldati già finiti in manette potrebbero non sembrare neppure troppi per una struttura con 610 mila dipendenti, compresi 52 mila funzionari civili, ma tra gli arrestati, ci sono molte figure di vertice. Per i militari turchi, questi sono forse i giorni più duri in quasi un secolo di storia repubblicana. Per ottant’anni, essere un soldato di carriera portava con sé prestigio e prebende, accesso a circoli esclusivi e privilegi per i familiari. E soprattutto, la grande missione di vegliare sul potere civile per garantire la laicità dello Stato. Con l’arrivo di Erdogan, tutto è cambiato. Dopo la svolta del 2007, quando i militari kemalisti persero il braccio di ferro sull’elezione del primo presidente con moglie velata, Gul, la loro autorità ha perso colpi a ripetizione. Con la complicità dell’allora alleato e oggi arcinemico, Gulen, Erdogan ha decapitato i vertici laici dell’esercito con i due maxi-processi Ergenekon e Balyoz.
Kemalisti all’angolo
L’altro colpo è arrivato con il referendum del 2010 che sancì il giudizio davanti a tribunali civili anche per i militari in caso di golpe. Nel frattempo, molte condanne sono state annullate e molte accuse si sono rivelate fasulle, ma intanto i kemalisti erano stati messi all’angolo e sostituiti in molte posizioni di vertice dai militari fedeli a Gulen. «L’esercito era l’ultimo feudo dei gulenisti, dopo che Erdogan li aveva già eliminati dalla polizia, dal giudiziario e dal mondo della comunicazione», ricorda Rodrik. Oggi che anche loro sono stati epurati, l’esercito di Ankara appare un gigante azzoppato che non sembra neanche godere della grazia della popolazione. Le probabilità che l’Akp sia fermato dalla componente militare, minoritaria, che si considera ancora detentrice e custode del laicismo sono quindi poche. Ma Erdogan vuole annullarle del tutto. Non solo con le purghe, ma lavorando anche sull’immaginario collettivo. Nei circoli più vicini all’ormai Sultano c’è anche chi dice che Erdogan vorrebbe portare i militari dalla sua parte. L’Akp partito Stato potrebbe cercare di trasformare il suo storico nemico in alleato.
pagina 99, 29 luglio 2016