La scrittura di Verdi è teatro, sempre: teatro scavato, ricercato, studiato alla perfezione. Tornito sui significati profondi della parola, sui silenzi. Fatto di grandi gesti melodici, ma anche di piccole dissonanze nascoste, rivelatrici. Di raffinati vapori sonori. Dove il dolore più estremo si esprime cantando pianissimo, come pochi interpreti si ricordano di restituire. E dove tutto è chiosato: in partiture fitte di indicazioni espressive, con parole, dinamiche e colori dettagliati con precisione meticolosa, come nelle Sinfonie di Mahler.
Peccato però che nella realtà pochi autori siano bistrattati al pari di lui: alle opere di Verdi si fanno tranquillamente tagli (come non si oserebbe mai con Beethoven o Schubert o Wagner) oppure aggiunte (e ci sono appassionati che attendono il cantante al varco solo per quelle note, nemmeno scritte dal compositore). Si storpiano le parole, gli accenti, le intenzioni: “amare” diventa “ammare”, che non c’entra con l’andare al mare. I pianissimi, chiesti con disperazione, con ben quattro “pppp” sotto la nota, vengono gridati. Il dramma diventa comico. Verdi non l’avrebbe tollerato. Il suo teatro è tagliato nel cristallo, come il teatro di Mozart. Basta volerlo e saperlo leggere.
Per questo ho deciso di insegnarlo ai giovani, nell’Accademia per l’opera italiana, fondata a Ravenna, e che ha già gettato ponti in Corea e in altre parti del mondo. Interamente sostenuta da privati, prevede due settimane di studio intensivo per quattro direttori, altrettanti maestri collaboratori e un gruppo di cantanti, selezionati su oltre quattrocento domande di ammissione pervenute da tutto il mondo. Gli allievi effettivi lavorano, sul palcoscenico del Teatro Alighieri, avendo a disposizione l’Orchestra Cherubini; gli uditori, più di un centinaio, seguono in sala.
L’opera di quest’anno è Traviata. La popolare Traviata, che però mancò dalla Scala per 26 anni (e l’ultimo a dirigerla fu Karajan, che dovette uscire dalla porta di via Verdi, per sfuggire a quanti lo aspettavano in via Filodrammatici, per ulteriormente contestarlo) infrangendo una doverosa continuità culturale. Vennero affissi cartelli listati a lutto, sui muri del teatro, quando osai riproporla, nel 1990: «per il funerale di Violetta». In tutto il primo atto non ci fu un applauso. Mi veniva voglia di girarmi e dire, come De Filippo: «Ma che, c’è freddezza?».
Un certo tipo di pubblico aspettava solo una nota. Una, l’unica non scritta da Verdi: il mi bemolle del soprano, alla fine di tutte le piroette ben più terribili della Cabaletta. Nel disco con Renata Scotto non l’avevamo eseguita. Ma con Tiziana Fabbricini avevamo concordato un cenno d’intesa, nel caso fosse stata necessaria per vincere la scommessa. Perché è più elegante, più filologica, più belcantistica la chiusura al centro. Ma in questo caso quell’acuto non è così un errore. Come invece il “do” del tenore, nel secondo atto (“Laveròòòò!”, tanto brutto anche sulla parola, e Verdi di drammaturgia si intendeva) oppure sempre l’altro “do”, nella Pira del Trovatore.
Come finì? Lei cantò il mi bemolle e venne giù il teatro. Ecco, io oggi mi batto per questo: perché Verdi non venga ascoltato per un acuto circense, bensì per il suo teatro. Che rispecchia noi italiani, nel senso più nobile e profondo. Costruito con una lente che scava in fondo all’animo umano. Musicalmente intrecciando il classicismo viennese di Haydn-Mozart-Beethoven con la grande scuola napoletana del suo maestro a Milano, Vincenzo Lavigna, compositore di Altamura.
Prendiamo ad esempio il terzo atto, dopo il Preludio, il più vero e toccante, genialmente collocato qui e non all’inizio dell’opera, col suo senso di morte e la sua tinta simile all’Ouverture del Lohengrin, andato in scena tre anni prima del 1853 di Traviata, ma che Verdi allora non poteva conoscere. Violetta sveglia Annina, la domestica, e il libretto prevede un dialogo senza orchestra, puro teatro di parola, che anticipa Otello. Sono poche battute, sospese tra pause piene di emozione, importantissime per definire il clima di morte che aleggia da subito. Difficili come tutti i Recitativi di Verdi, perché brevi. Da caratterizzare, perché spesso le due donne finiscono per cantare con la stessa espressione: ma Annina non è Violetta e il carattere del personaggio nella scrittura verdiana è consegnato più agli aggettivi che ai sostantivi: “il vero amico”, “per l’aride follie”, “bei sogni ridenti”, “l’anima stanca”.
Il testo svela raffinate qualità letterarie, quando le indicazioni ritmiche ed espressive vengano rispettate. E profondità di racconto, di significato, quando si eseguano le seconde strofe, nei Cantabili o nelle Cabalette: come nell’ “Addio del passato”, legato e dolce, con un’eco di cantilena da medio-oriente. Introdotto da un disegno, in orchestra, che riproduce quel cerchio chiuso, che compare sempre quando Verdi evoca il tema del destino, da cui non si può fuggire. Dove per l’unica volta usa la parola “traviata”. E Verdi lo fa dire proprio da Violetta. Spiegando furente nelle lettere, che «a Roma hanno fatto Traviata pura e innocente, ma una puttana deve essere sempre una puttana» in linguaggio schietto, contadino. Vero, senza maschere.
Perciò il Brindisi «Libiamo» del primo atto non va cantato con i personaggi sulla scena che dondolano felici e spensierati: perché dipinge un’atmosfera malata, di morte fisica e spirituale. E nel Finale del secondo atto non si deve allargare il tempo nelle tre grandi frasi di Violetta, che invoca pietà: perché sono indicate come un pensiero interno, mentre intorno si svolge il diabolico, frenetico gioco delle carte. E “col tempo”, le orrende due parole che papà Germont dice a Violetta, intimandole di lasciare il figlio Alfredo, andrebbe studiato per anni: come si studia in Shakespeare «to be or non to be».
(conversazione raccolta da Carla Moreni)
“Il Sole 24 Ore domenica”, 31 luglio 2016