Alfonso Maurizio Iacono, docente di Storia della Filosofia all'Università di Pisa, viene come me dall'Agrigentino e viene dalla cultura del Pci. So che è buon amico dei miei antichi compagni di Fgci e di partito, ma non ho avuto fino ad oggi la fortuna di incontrarlo di persona. Ricordo però perfettamente – e conservo tra i ritagli – un suo intervento sul “manifesto” in cui argomentava il suo rifiuto alla proposta di Occhetto di trasformare il Pci in un partito democratico di sinistra. Utilizzava un racconto di Wells, Il paese dei ciechi, un bellissimo apologo che sembrava costruito alla bisogna. Ho preso dal “manifesto” il testo che segue, che risale allo stesso periodo, ampio stralcio da una sua relazione a un convegno su Dialogo interculturale ed eurocentrismo. In genere non amo leggere testi filosofici: ho l'impressione che spesso la gergalità e la conseguente oscurità non siano affatto necessarie, inerenti ai problemi affrontati e al tipo di approccio scelto, ma ricercate per escludere i non iniziati. Non accade così per gli interventi di Iacono e in questo in particolare, che mi pare non abbia perso nulla della sua attualità. (S.L.L.)
Lo storico Immanuel Wallerstein ha sostenuto che l’universalismo è sia un’epistemologia sia una fede del mondo occidentale moderno. È un’epistemologia in quanto si basa sulla convinzione che l’oggetto della scienza è la ricerca di affermazioni universali dotate di senso e riguardanti il mondo fisico e il mondo sociale, e che scopo della scienza è quello di eliminare ogni elemento soggettivo. cioè - specifica Wallerstein - storicamente determinato. Ma è anche una fede. E questa fede è nella verità in quanto oggetto e scopo della ricerca. Scrive Wallerstein: «La nostra educazione collettiva ci ha insegnato che la ricerca della verità è una virtù disinteressata, mentre invece essa è una forma autointeressata di razionalizzazione. La ricerca della verità (...) è stata quanto meno consona al mantenimento di una struttura sociale gerarchica, diseguale, sotto una serie di aspetti particolari. I processi attivati dall'espansione dell’economia-mondo capitalistica (...) hanno comportato una quantità di pressioni al livello della cultura (...)».
Universalismo a mano armata
«Molti .di questi cambiamenti furono realizzati manu militari. Altri furono ottenuti tramite l'opera di persuasione di "educatori'', la cui autorità era sostenuta in ultima istanza dalla forza militare. Si tratta di quel complesso di processi che talvolta definiamo "occidentalizzazione”. o in modo perfino più arrogante "modernizzazione” e che furono legittimati dal desiderio di spartirsi la fede nell’ideologia dell'universalismo insieme con i suoi frutti».
Secondo Wallerstein c’erano due motivi dietro questi cambiamenti culturali: l’efficienza economica e la sicurezza politica. Da un lato appariva necessario adeguare il comportamento delle persone alle nuove norme culturali e privarle di quelle antagonistiche. Dall'altro si puntava all’«occiden-talizzazione» delle élites delle aree periferiche allo scopo di prevenire o meglio evitare possibili rivolte.
In questa interpretazione storica di ciò che ha caratterizzato l'affermarsi del capitalismo, della sua cultura, della sua ideologia, la nozione di universalismo si mostra come il risultato paradossale di diseguaglianze fra popoli e nazioni.
«C’era una trappola nell’universalismo. - continua Wallerstein - Esso non si è fatto strada come una ideologia libera, ma è stato propagato da coloro che detenevano il potere economico e politico nel sistema-mondo del capitalismo storico. L’universalismo è stato offerto al mondo come un dono del potente al debole. Timeo Donaos et dona ferentes!Il dono stesso nascondeva in sé il razzismo; perché il dono dava al ricevente due possibili scelte: accettarlo, e con ciò riconoscersi al livello più in basso nella gerarchia della saggezza acquisita; rifiutarlo, e con ciò privarsi delle armi che potevano rovesciare la situazione di un potere reale diseguale».
Ogni dialogo che parta dal riconoscimento delle diversità delle culture e abbia ambizioni di universalità non può non assumere come presupposto la stessa diffidenza e timore che Laocoonte espresse a proposito dei Greci (Eneide, II, 65). Un dialogo fra diversi è altra cosa da un dialogo fra diseguali.
Questo secondo tipo di dialogo che si svolge tra il potente e il debole, ricorda quello che Robinson ebbe con Venerdì. A Robinson non sorse mai il dubbio che la lingua ufficiale del dialogo fra lui e Venerdì potesse essere altra che la sua, l'inglese. E si fece chiamare, naturalmente in inglese. «padrone».
Il timore, di cui ci narra Virgilio, che Laocoonte espresse nei confronti dei Greci e dei loro doni, è evocato da Wallerstein a proposito di ciò che il dono dell’universalismo nascondeva: il razzismo. La questione, che di recente è stata sollevata dallo stesso Wallerstein e da Etienne Balibar nel libro Razza, nazione, classe, riguarda il fatto che l’immagine di un mondo moderno teso a superare i limiti delle appartenenze locali e a proclamare la fratellanza universale dell’uomo sta mostrandosi sempre più illusoria e distorcente. Soprattutto, appare difficilmente sostenibile una visione della storia come processo verso la realizzazione e il compimento dei valori universali quali la fratellanza, l’eguaglianza, la libertà. E appare altrettanto difficilmente sostenibile un’interpretazione che veda nel razzismo, nel nazionalismo, nel sessismo, aspetti inconciliabili con il processo storico di affermazione di quei valori universali e, al contempo, rimovibili col progredire della storia universale. Al contrario, razzismo, nazionalismo e sessismo appaiono come complementari all’universalismo, o per meglio dire, al modo in cui l’universalismo è stato offerto al mondo dai popoli occidentali moderni.
Quando Hegel descrisse il movimento della storia universale (Weltgeschichte) come un processo che andava da Oriente a Occidente, da una parte riorganizzò in termini moderni la tradizionale immagine cristiana che si era affermata con Agostino e con Orosio, dall’altra escluse, come è noto, i «negri» da essa. Scriveva Hegel: «Chi vuol conoscere manifestazioni spaventose della natura umana, può trovarle in Africa. Le più antiche notizie su questa parte del mondo dicono lo stesso: essa non ha dunque, propriamente una storia. Perciò noi lasciamo qui l’Africa, per non più menzionarla in seguito. Essa infatti non è un continente storico, non ha alcun movimento e sviluppo da mostrare: se qualcosa in esso, nella sua parte settentrionale, è propriamente accaduto, esso appartiene al mondo asiatico e europeo. (...) Ciò che intendiamo propriamente come Africa è quel suo essere non storico e non dispiegato, che è ancora tutto immerso nel grado naturale dello spirito (...)».
L’avanzata verso la storia universale ha bisogno dunque di sacrifici e di esclusioni. Dentro la dimensione del tempo storico l’universalità si trova nella condizione paradossale di dover definire i propri confini e dunque di doversi affermare attraverso la negazione di ciò che la caratterizza come tale, cioè attraverso la negazione che, in principio, alcuna cosa possa stare al di fuori dei suoi confini.
Il razzismo cosmopolita
Il fatto che la storia universale possa svilupparsi teoricamente con un processo che prevede delle esclusioni significa appunto che l’affermazione di valori universali tramite la storia non può essere che intensiva. Perché vi sia universalità è sufficiente che un popolo incarni per tutti quel determinato valore. In questo senso l’universalità non soltanto ammette delle esclusioni, ma si esprime come dominio di una parte sul tutto. Ma non si tratta solo di questo. L’identificazione dell’universale in un popolo esprime il bisogno di conciliare la rottura moderna dei vincoli comunitari e locali con il mantenimento di forme e immagini di comunità atte a offrire i processi di formazione delle identità collettive.
Il razzismo moderno sembra essere una forma estrema di ricerca di un’identità collettiva costruita su confini al cui esterno è collocato l'altro che tanto più è espulso dai confini dell’identità razzista quanto più si sono spezzati i vincoli tradizionali tra comunità e popoli e, dunque, quanto più si è affermato l’universalismo del modo capitalistico di produzione.
Razza, nazione, popolo. Non si tratta dunque di nozioni che, per così dire, resisterebbero e sopravviverebbero all’universalismo e al cosmopolitismo moderno. Si tratta di nozioni complementari all’universalismo e al cosmopolitismo. Esse hanno la funzione di indirizzare l’immaginario sociale verso la costruzione di identità sociali e di comunità atte ad assicurare una dialettica di coesione e di divisione fra uomini che, dentro il procedere espansivo del mercato mondiale, come individui risultano espropriati dalle loro concrete, storiche appartenenze locali e come cittadini diventano membri di una astratta società formale.
Proprio all'interno di questa scissione fra individui e cittadini, tra soggetti e regole istituzionali, vengono a collocarsi le forme comunitarie e le identità collettive che rafforzano i loro confini sull’estraneità dell’altro. Quanto più l’universalismo occidentale spazza le originarie appartenenze locali e i precedenti confini comunitari, tanto più riemergono nozioni quali razza nazione, popolo, che, riproducendo un’immaginaria appartenenza egualitaria, trasferiscono le diseguaglianze interne nelle differenze con l’altro che diventa così l’estraneo. Tali nozioni esprimono la condizione paradossale del bisogno ineliminabile di un universo collettivo, simbolico e culturale, che l’universalismo occidentale sembra possa soddisfare soltanto con la produzione di ciò che esso stesso nega, cioè la trasformazione dell'altro nell’estraneo, la sua espulsione oltre i confini di un mondo che non dovrebbe avere di questi confini.
"il manifesto", 25 maggio 1991