“Vorrei che la mia poesia risonasse come un violino, comunque esso si chiami: violon, violìn, viool, hegedu, Geige, housle, skrzypce, skripka. Anche se storto, se guercio, e perciò chagalliano”. Così scriveva di sé Angelo Maria Ripellino, tre anni prima di morire; e proseguiva: “non c'è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell'humus del teatro della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti”. Ripellino si spense, dopo una penosa malattia, dieci anni fa; ed è probabilmente venuto il tempo di rimeditare nel complesso il significato di quel violino alla Chagall che è l'insieme del suo retaggio letterario, poesie, racconti, traduzioni, i saggi di russistica, polonistica, boemistica, i romanzi-saggio sui registi russi d' avanguardia (Il trucco e l' anima, 1965) e su Praga magica (1973); e poi gli articoli di giornale, le critiche teatrali apparse nella rubrica da lui tenuta su “L'Espresso” dal 1972 al 1977. Di recente, sono stati pubblicati due altri suoi libri: uno di poesie, Scontraffatte chimere (a cura di Giacinto Spagnoletti, Pellicanolibri, pagg. 108, lire 15.000), e uno di studi di letteratura russa raccolti col titolo da lui ideato, L'arte della fuga (a cura di Rita Giuliani, Guida, pagg. 413, lire 25.000). Altri inediti giacciono ancora nel suo archivio, tra i quali primeggia una grossa monografia sul teatro cèco tra le due guerre, Storia di due clowns.
Come si può intuire, un retaggio imponente (quando, nel 1983, raccolsi una Bibliografia degli scritti ripelliniani che, come era facile prevedere, è risultata tutt'altro che completa, segnai 570 posizioni), che per la natura stessa della polivalente e complessa figura di Ripellino, si presta come pochi altri ai lenocinii della esegesi per via di citazioni interne, cui del resto non siamo riusciti a sottrarci neppure noi, in apertura a queste annotazioni.
Angelo Maria Ripellino era nato nel dicembre del 1923 a Palermo. La sua sicilianità, a lungo mimetizzata non tanto sotto la lunga permanenza romana fin dagli anni della giovinezza , quanto dalla formazione culturale mitteleuropea e particolarmente slava, è riemersa prepotente negli scritti e nei versi, soprattutto degli ultimi anni. Formatosi alla scuola di Ettore Lo Gatto e di Giovanni Maver, dunque della migliore slavistica accademica italiana del tempo, Ripellino esordì ancora ragazzo sulle pagine del settimanale letterario Il meridiano di Roma, e cominciò a farsi conoscere come giovane promettente slavista nell' immediato dopoguerra: ma privilegiando da subito una maniera antiaccademica e antipedantesca di praticare la slavistica, che tra l'altro lo portava a occuparsi prevalentemente di autori contemporanei. Scriveva sui giornali (fino al maggio 1948 anche su “l'Unità”); e dopo un lungo soggiorno a Praga, il suo primo libro è stato la Storia della poesia ceca contemporanea(1950; poi riedita nel 1981 dalle edizioni e/o). Come studioso di letteratura russa, s'impose con una ponderosa antologia della Poesia russa del Novecento (1954), che non faceva mistero di voler competere col precedente Il fiore del verso russo di Renato Poggioli (del 1949); e poi col libro su Majakovskij e il teatro russo d'avanguardia (1959), che, in dichiarata polemica con la majakovskologia sovietica in quegli anni rappresentata soprattutto dal ponderoso Majakovskij. Vita e opere di Viktor Perzòv s'apriva con una dichiarazione che è tutta un programma: “Nella loro tendenza a far di Majakovskij un poeta erariale, uno scialbo campione accademico, alcuni critici russi s'affannano a separarlo dal futurismo, come se il futurismo fosse un nido di corvi, un'accolta di gente peccaminosa (...). Uno dei più tempestosi poeti della nostra epoca diventa nelle loro mani un compunto sacerdote del realismo, un tedioso seminarista capitato in una compagnia di ribaldi e beoni”. Di questi secondi anni Cinquanta sono anche le prime prove poetiche, poesie scritte quasi come infrazione alla tipologia della professura che stava divenendo con sempre maggiore evidenza la sua professione e che si mostreranno senza più complessi di colpa a muovere dal volume Non un giorno ma adesso (1960).
Molto è stato scritto (e, non tanto in cifra, dallo stesso Ripellino) su Ripellino uno e due: il Ripellino poeta, partecipe all'esperienza della neo-avanguardia degli anni Sessanta, poeta clown, poeta barocco sempre più ossessionato tematicamente dal fantasma rutilante della Morte; e il Ripellino studioso, saggista e filologo, originale esegeta della letteratura russa (e boema, e polacca), soprattutto di quella delle avanguardie novecentesche. L'uno e l'altro fortemente intrisi dell'elemento teatrale.
Se dovessi indicare un terreno sul quale concentrare l'attenzione per meglio intendere il nesso tra questi due fondamentali aspetti dell'opera di Ripellino, indicherei quello della traduzione. Anni fa, Riccardo Picchio (tra l'altro coetaneo e collega di Ripellino, già come studente all'Università di Roma, negli anni Quaranta), scrisse del comune maestro che per molti lettori, la lingua di vari scrittori russi si identifica con un particolare standard letterario italiano elaborato da Lo Gatto sulla base di complesse esperienze personali dominate da un bilinguismo culturale di carattere essenzialmente erudito. Volendo parafrasare, si potrebbe dire che gran parte della moderna poesia russa (e anche ceca) suona all'orecchio del lettore italiano essenzialmente col linguaggio elaborato, e a tratti fin estetizzante, che Ripellino ha costruito sulla base della sua personale esperienza biografica e culturale, certamente trilinguistica ma potenzialmente plurilinguistica, e che trova ragione ultima nella propria voce poetica.
Non è questo il luogo (né mi sentirei autorizzato, sulla scorta delle mie personali competenze) di dire una parola che si pretenda riassuntiva, sulla poesia di Ripellino; qualcosa di più, forse, potrei avanzare sul significato del suo lavoro per i successivi sviluppi della slavistica in Italia (per esempio, non mi sentirei di avallare l'idea, peraltro autorevolmente avanzata, della reale consistenza d'una scuola di Ripellino). Resta comunque il fatto che la sua opera continua a distanza di anni a esercitare un fascino rilevante sulle nuove generazioni di poeti, di teatranti, e anche di slavisti (ne sono palese testimonianza alcune manifestazioni annunciate proprio in coincidenza col decennale dalla scomparsa). Questo significa che lo splendido violino verde continua a risuonare con una voce inconfondibile: una delle più vivaci e inventive di questa seconda metà del XX secolo in Italia.
“la Repubblica”, 13 maggio 1988