Oggi ho trovato un grillo morto, mentre rientravo verso casa. C’erano due bambini sul marciapiede poco avanti. Mi sono avvicinato con il grillo morto in mano e uno dei due è scappato. All’altro, più coraggioso, ho chiesto: “Ino nara bibi kely?”, che nome ha questo insetto? Lui ci ha riflettuto su e mi ha risposto: “Behara”. Io gli ho ribadito: “Misaotra betraka”, molte grazie. E ho proseguito. Arrivato a casa, ho mostrato a Tina il grillo morto, del tutto simile a quelli che abbiamo nei nostri prati, con la striscia gialla sul collo e che allietano le notti primaverili. Lei mi ha detto che “behara” significa carapace, cioè dorso duro e che quindi ci può stare. Proprio la mattina le avevo chiesto come si chiamassero nella sua lingua i grilli domestici, che abbiamo in camera e che si fanno vedere a volte furtivamente, ma lei non aveva saputo rispondermi. “Valala” è termine generico e significa cavalletta. Si tratta sempre di ortotteri, ma sono specie diverse, il grillo domestico è di colore smorto, marroncino, mentre quello dei prati, che tutti noi da bambini andavamo a catturare, è totalmente nero, a parte la striscia gialla sul corsaletto.
Non è di capitale importanza riguardo alle sorti del mondo, quanto sto dicendo, vero? Beh, in effetti, se permettete, io vi parlo delle mie esperienze quotidiane, anche le più semplici, perché non ci si può arrovellare continuamente su guerre, corruzione politica e Nuovo Ordine Mondiale. Il grillo verrà con me in Italia, non perché sia un reperto naturale raro e prezioso, ma perché è pur sempre una ….creatura del Signore che ha trovato la morte su un marciapiede sabbioso di Tulear ed è stato da me trovato. Casualmente. Ciò che è successo dopo è, forse, la cosa più interessante di questa storia, a parte il bambino che è scappato all’avvicinarsi di un vazaha, perché qualche adulto stronzo gli ha detto che i vazaha rapiscono i bambini.
Come mi succede ogni giorno, camminando dal centro città verso casa, un gruppo di giovani mi ha chiesto, in francese: “Ca va bien?”. Essendo una persona gentile, e sulla base del principio: “Chiedere è lecito, rispondere è cortesia”, mi sono fermato e gli ho risposto: “Abbastanza bene, grazie”. In italiano. Questo, per far loro capire che non sono francese, che non tutti i vazaha lo sono e che dovrebbero allargare i loro orizzonti mentali, tenendo presente che in Europa ci sono una trentina di lingue diverse. Subito gli ho mostrato il grillo morto che avevo in mano, dicendogli anche il suo presunto nome. Non si può mai sapere se è quello corretto, perché a Tulear vivono diverse etnie, ciascuna con il suo dialetto. Per cui, “behara” potrebbe essere il nome del grillo in Vezo, ma non è detto che i Mahafaly lo chiamino nello stesso modo. Oppure, potrebbe essere il nome in Masikoro e non è detto che gli Antandroy lo capiscano. Io non sapevo a quale etnia appartenessero i giovani che mi hanno fermato, e mi sono limitato a dirgli il nome che il bambino coraggioso mi aveva detto poco prima. Fa niente, l’importante è che i quattro ragazzi abbiano saputo che un vazaha strambo, per non dire scemo, porterà in Italia un grillo morto. Ce n’è di gente strana al mondo, devono aver pensato. E io gliel’ho lasciato pensare, così allargano la loro visione del mondo.
Poi ho incontrato Victorino. E’ facile trovarlo nello stesso posto, anche perché, handicappato com’è, non può andare lontano. Inizialmente, il granoturco, al mercato di Bevoalavo, lo compravo per le galline che razzolano nel cortile. Le galline del vicino. Adesso lo compro per Victorino. E gli piace. Metto un cartone per terra e sopra gli fornisco manciate di mais. Lui mangia di gusto. I conducenti di pousse pousse guardano divertiti poco lontano. Papa Bergoglio disse recentemente che Gesù faceva lo scemo. I cattolici intransigenti non hanno capito. Ecco, anch’io, in Madagascar, faccio lo scemo. Non ci vuole molto. Basta tirar fuori dallo zaino del granoturco e darlo da mangiare a un caprone zoppo, che ancora non so se è nato così o se le zampe davanti se le è rotte da piccolo. Basta tirar fuori pane e latte e darlo a dei cani randagi in un piatto, che lo spazzolano via in men che non si dica, e si passa per scemi. A me non dispiace.
Se questo è il prezzo che devo pagare (e Tina, mia moglie, ci mette del suo per farmelo pagare), lo pago volentieri. Faccio lo scemo. Con intenti educativi, per far capire a questi bifolchi (in senso buono) che gli animali sono persone, che non sono cibo e che apprezzano ogni gesto di benevolenza che gli verga elargito. Zanahary non voglia che il padrone di Victorino, quel signor Ilaza che ho conosciuto e che abita nelle vicinanze, non decida un giorno di far macellare il “mio” caprone nero, da me idealmente adottato. Zanahary non voglia che i “miei” cagnetti randagi, che si sbafano il pane e latte in men che non si dica, non trovino sulla loro strada qualche bastardo che li avveleni o che li investa di proposito con l’auto o che gli getti addosso acqua bollente. Io fra un mese sarò nel primo mondo, lascerò il terzo mondo e i miei bambini a quattro zampe se la dovranno cavare da soli, compreso il gallo prepotente il cui destino è già segnato, a differenza del caprone e dei cagnetti. Se fossi religioso, pregherei per loro, ma non lo sono. Sono un ateo che dà loro da mangiare. E nessuno deve lamentarsi!