Giancarlo Ferretti ha svolto questo intervento al meeting su Pasolini organizzato a Roma dalla Fgci nel settembre del 1985, in occasione del decennale della morte. (S.L.L.)
Pier Paolo Pasolini con Ferdinando Adornato a una manifestazione della Fgci, nei primi anni 70 |
Si sono addotte molte ragioni e si sono date molte spiegazioni del perché i giovani comunisti tornino oggi a discutere di Pasolini, e a sentire in qualche modo propria l'esperienza pasoliniana. Vorrei avanzare a questo proposito un'ipotesi.
Si può osservare anzitutto che i giovani, e i giovani comunisti in particolare, avvertono oggi una carenza o un vuoto della politica istituzionale (anche della sinistra), una crisi o una mancanza di veri maestri oltre che di figure realmente carismatiche, o addirittura una insofferenza per i maestri tout court, come del resto per i «padri» naturali o ideali.
Pasolini potrebbe essere allora la risposta a quel vuoto e a quella insoddisfazione. Più precisamente, Pasolini potrebbe apparire come una figura di maestro-non maestro (e curiosamente, i compagni della Fgci, nelle loro dichiarazioni, ora hanno parlato di «maestro», ora hanno negato di cercare un maestro in Pasolini), o anche come una figura di padre-non padre (in senso fortemente metaforico), o forse meglio come una figura paterna, quasi un fratello maggiore, che si può sentire vicina, consonante, che non suscita cioè quella esigenza, necessità tipicamente giovanile, di opposizione, rifiuto, «distruzione» nei confronti della figura paterna appunto, per affermare la propria autonomia e specificità intellettuale ed esistenziale, e perciò critica. Una figura, anzi, che questa autonomia può favorire, e sia pure nel confronto e conflitto: ma un conflitto, in ogni caso, «costruttivo».
Ebbene, perché Pasolini può porsi come una figura di maestro-non maestro, di padre-non padre? Perché si colloca subito dalla parte dei «figli» (per continuare nella metafora), come eretico delle ideologie e confessioni, delle istituzioni e del potere dei veri padri. Perché cerca un suo ruolo politico del tutto individuale, fuori dalle organizzazioni istituzionali dei veri padri. Perché ha un rapporto di radicale rifiuto e al tempo stesso di struggente amore (a lungo inconfessate) con il proprio padre naturale, contrariamente a un superficiale luogo comune che ignora del tutto il secondo momento.
Del resto, la sua esperienza e la sua opera sono attraversate da un motivo squisitamente giovanile' il mito dell'innocenza,, anzi del peccato innocente («colpa innocente» è un tipico ossimoro pasolina-no), contrapposto ai peccati colpevoli, spesso dichiarati come virtù e valori, degli adulti corruttori, della chiesa autoritaria, dello Stato borghese repressore, del neocapitalismo o del potere trans-nazionale, violentatori e omologatoli dei veri valori e delle differenze. Questo mito è al tempo stesso sempre eguale e sempre diverso, in Pasolini. Esso ha una tipoioga emblematica: i fanciulli friulani delle poesie dialettali e in lingua degli anni quaranta, i ragazzi sottoproletari romani delle poesie e dei romanzi degli anni cinquanta, gli studenti del '68 (di cui Pasolini non dà una valutazione unilateralmente negativa, come vuole un altro superficiale luogo comune, ma assai contraddittoria, vedendoli tra l'altro ora come incarnazione di un'innocenza eminentemente trasgressiva, ora come uccisori di ogni innocenza; si vedano, oltre alla famosa poesia-pamphlet Il Pei ai giovani!!, i monologhi del testo scritto di Teorema, non poche poesie di Trasumanar e organizzar, vari scritti giornalistici, eccetera), e ancora i giovani fascisti di Salò e della Nuova gioventù, e in generale, sempre ricorrenti nel suo discorso, i giovani comunisti, come espressione privilegiata di «un paese pulito in un paese sporco».
Questo mito di un peccato innocente o di un'innocenza «scandalosa» verso i rispettivi contesti istituzionali dei protagonisti di quella tipologia, può caricarsi cosi di implicazioni ideologiche, etiche, culturali, politiche anche diverse e opposte, rispetto alle sue radici evangelico-viscerali, in un intreccio contraddittorio che è la forza e il limite del discorso pasoliniano.
Se quella ipotesi, dunque, ha qualche fondamento, si può ipotizzare ulteriormente che i giovani comunisti siano portati più o meno consapevolmente a vivere il mito del peccato innocente, via via reincarnato e complicato, come un'etica e una pratica trasgressiva che difende e afferma valori apparentemente premoderni ma in realtà universalmente umani, contro i guasti e le distruzioni di un mondo che si dichiara moderno; guasti e distruzioni che si manifestano nei giovani come le conseguenze più drammatiche dello Sviluppo, e che vengono colti da Pasolini con tanta fulminea anticipazione. Pasolini, in particolare, «legge» in essi una violenza al tempo stesso sociale e privata, materiale ed esistenziale, con una sensibilità del tutto estranea a tanti grandi maestri del sociale e del politico (e del movimento operaio).
Questo mito del peccato innocente, ancora, può essere sentito e vissuto come un'etica e una pratica extraistituzionale, anticonvenzionale, disinteressata, in un mondo di conformismo, praticismo, profitto.
Se perciò l'ipotesi ha qualche ragione, questo modo di sentire propria l'esperienza pasoliniana reca in sé certamente momenti di attiva critica dell'esistente e di riaffermazione di valori, ma anche qualche pericolo. Due, in particolare: convergenza, sintonia con il maestro-non maestro Pasolini, che porti (nonostante tutto) più all'identificazione che al confronto, all'attrito, momento fondamentale di ogni processo educativo; e il pericolo inoltre della ben nota presenza di un momento regressivo al fondo del discorso di Pasolini, che qui può manifestarsi come resistenza a entrare nel mondo adulto, che è poi anche il mondo della maturità.
Ma qui può essere ancora utile quanto scriveva in un lontano saggio Calvino, intellettuale e scrittore pur così diverso da Pasolini. Calvino scriveva che «i libri possono essere buoni o cattivi a seconda di come li leggiamo», e che «in ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia». Ora, non so se la «lezione» di un libro dipenda sempre e soltanto dalla lettura che se ne fa, certamente quel «nutrimento», quel nucleo vitale è ben presente e attivo nella poesia e nell'esperienza complessiva di Pasolini. Che richiede appunto uno sforzo di lettura non troppo consonante e non troppo consolante: una lettura insomma, capace di distinguere tra il Pasolini che si ritrae di fronte alla maturità, e quello che invece l'attraversa con la sua poesia e con la sua vita.
il manifesto 25 settembre 1985