Dopo aver avviato una produzione casalinga di succhi di prezzemolo, garana (frutto della passione) e guava, ora posso aggiungere altri dettagli su come farsi in casa i succhi di cocco e tamarindo. La polpa bianca del cocco, che normalmente in Italia si mangia d’estate sulle spiagge, viene sminuzzata in pezzi il più possibile piccoli, in modo da facilitare il lavoro del frullatore. Anche così, ci saranno sempre frammenti non spappolati dalle lame dell’elettrodomestico, ma il risultato sarà accettabile comunque. Per tale ragione, per la tenacia della sua fibra, presumo che il succo di cocco sia raro nel sud del Madagascar, mentre nel nord è più diffuso. Ma lassù usano una specie di grattugia, detta “totosy”, e fanno anche a meno del frullatore. Hanno imparato la tecnica dai comoriani.
Per il tamarindo, chiamato “kily” a Tulear, il frullatore non serve. I baccelli secchi, di colore marrone, si comprato al mercato e sono molto comuni. Al gusto, sono molto aspri. Li si fa bollire e si lascia la pentola a raffreddare. Quando il liquido è ben freddo, si filtra il tutto, s’imbottiglia e si mette in frigo. Con il succo di tamarindo si consuma il carbone per la bollitura, ma si risparmia sull’elettricità consumata dal frullatore. Il sapore del cocco lo conoscete tutti, quello del tamarindo, che necessita di molto più zucchero per coprire l’asprezza dei baccelli, è un po’ meno conosciuto in Italia, ma in certi bar, una bibita a base di tamarindo, non è impossibile da trovare.