F. Engels |
«Questo programma, fiacco e scolorito, è tale che, se verrà approvato, Marx o io non potremmo mai considerarci aderenti al nuovo partito creato su questa base, e dovremmo riflettere molto seriamente alla posizione che dovremmo assumere verso di esso — anche pubblicamente. Questo programma costituisce una svolta che potrebbe molto facilmente costringerci a respingere da noi ogni responsabilità per il partito che lo accetterà».
Poche settimane dopo questa aperta dissociazione da parte di Engels, Marx preannunciava la pubblicazione di una dichiarazione, stesa d’accordo con l’amico, nella quale entrambi avrebbero affermato di non condividere «assolutamente i principi del suddetto programma» e di «non aver niente a che fare con esso». Così, proprio alla vigilia del Congresso di Gotha, destinato a ratificare l’unificazione fra il Partito socialdemocratico tedesco di Liebknecht e Bebel con l’Associazione operaia tedesca di Lassalle, i due «padri» del socialismo scientifico prendevano risolutamente le distanze dal programma elaborato in vista del congresso come supporto teorico del nuovo partito unificato. Il 1875 si profila in tal modo come spartiacque decisivo nella storia del rapporto fra l'elaborazione marxista e le forme storiche del movimento operaio: la maturazione politica ed organizzativa del movimento, costituitosi ormai come partito unitario della classe operaia, sembra implicare il definitivo abbandono della «teoria proclamata nel Manifesto», in favore di un programma che semmai «consacra il credo lassalliano»; il Congresso di Gotha sembra cioè sanzionare una frattura insanabile fra «marxismo» e organizzazione politica del proletariato.
Scioltasi la I Internazionale nel 1874, il «nuovo corso» deciso a Gotha si inaugura all’insegna di una guida teorica — quella riassunta nel «Programma» — molto lontana dall'insegnamento di Marx ed Engels, che pure erano usciti vincitori dall’aspro conflitto coi bakuninisti in occasione del congresso svoltosi all’Aja nel 1872; in una certa misura, anch’essi, come i loro avversari, sembrano destinati a condividere la sorte dell’Associazione internazionale dei lavoratori: il crollo di quell’organizzazione coinvolge anche coloro che ne avevano esercitato la direzione sul piano politico e dottrinale, mentre il nuovo partito unificato si dà una nuova identità anche sul piano teorico, lasciandosi alle spalle le veementi diatribe fra i fautori delle diverse sette socialiste.
A prima vista, il quadro di ricostruzione storica fin qui sbozzato potrebbe apparire del tutto attendibile, soprattutto alla luce delle dichiarazioni con le quali Marx ed Engels preannunciano il loro disimpegno dalle vicende della socialdemocrazia tedesca; le stesse Randglossen redatte da Marx come critica del programma approvato a Gotha possono essere lette come documentazione delle ragioni di un distacco divenuto ormai inevitabile fra «marxismo» e organizzazione politica del movimento operaio. Il fatto poi che questo divorzio non si sia realizzato e che l’intreccio fra la «teoria proclamata nel Manifesto» e la Spd dovesse diventare assai più stretto proprio nel decennio successivo non soltanto non può attenuare retrospettivamente la drammaticità di una divaricazione che pareva ineluttabile, ma deve anzi essere assunto come riferimento decisivo per la comprensione della forma specifica mediante la quale il «marxismo» si costituisce storicamente come dottrina ufficiale del movimento operaio. Nel momento in cui questo realizza, mediante la riunificazione delle sue componenti, una vera e propria svolta sul piano politico e organizzativo, si apre contestualmente il problema di individuare l’orientamento teorico più adeguato per sostenerne i primi passi e indirizzarne lo sviluppo. Così, se da un lato il Congresso di Gotha concludeva una fase del Kulturkampf fra le differenti linee che si fronteggiavano all’interno della I Internazionale senza privilegiarne alcuna e tuttavia recependo nel programma spunti di inconfondibile ispirazione lassalliana, d’altra parte esso riapriva, in termini del tutto nuovi, il conflitto sul piano ideologico, nella ricerca non più di «oscuri evangeli», quanto piuttosto di una teoria capace di «formulare con precisione gli obiettivi finali della lotta per quel solo grande esercito di socialisti che avanza senza soste».
Da questo punto di vista si può allora affermare che dopo il 1875 il rapporto fra la teoria proclamata nel Manifesto e le forme storiche del movimento operaio conosce una fase completamente nuova, con una drastica soluzione di continuità rispetto al passato; spingendosi ancora oltre, si deve anzi riconoscere che solo a partire da quella data e per un periodo storico nettamente delimitato, sollecitato dall’assillo della supremazia sulle ideologie concorrenti, il «marxismo» perde poco alla volta la precedente connotazione di fazione interna alla socialdemocrazia per proporsi apertamente come «analisi e previsione generale dello sviluppo della società capitalista». La fondazione del nuovo partito unificato apriva, fra gli altri, anche il problema di individuare un orientamento teorico, una «dottrina», adeguata alla forma organizzativa e ai nuovi compiti di una formazione politica proiettata al consolidamento interno e a una crescente espansione fra le forze rappresentate al Parlamento: il conflitto fra le diverse tendenze attive all’interno del movimento operaio tedesco assumeva ora una curvatura tutta particolare, nel momento in cui la lotta per l’egemonia si giocava interamente sulla capacità di offrire a un partito politico modernamente organizzato non più soltanto formule propagandistiche, spezzoni di analisi, prediche consolatorie quanto piuttosto una teoria in grado di «formulare con precisione gli obiettivi finali della lotta».
Questa sfida è raccolta da Ensels nemmeno due anni dopo il congresso di riunificazione; la stesura degli articoli per il Vorwärts, poi raccolti in volume nel 1878 col titolo di Antidühring, obbedisce esplicitamente all'esigenza di evitare che i lassalliani «apparissero come le menti più chiare in Germania» e che si allargasse la base di consenso per le «scemenze del signor Dühring»: per impedire, insomma, che il credito accordato a Dühring dalla stampa socialista provocasse guasti irreparabili nell’organizzazione e nell’orientamento del partito «ancora così giovane», Engels si impegna in «un’esposizione unitaria del metodo dialettico e della visione comunista del mondo», con l’obiettivo dichiarato non solo di «cacciare l’idealismo dal suo ultimo rifugio», ma anche di «liquidare il socialismo quale era esistito fino allora».
Raccogliendo la sfida lanciata a Gotha, Engels può così sanzionare la superiorità del marxismo rispetto alle teorie rivali, riguadagnando il primato scosso dall’influenza lassalliana sul «Programma», in quanto è capace di dimostrare la maggiore efficacia della «visione comunista del mondo» come sostegno all’azione intrapresa dalla Spd; in quanto, cioè, propone come guida teorica della socialdemocrazia non l'ideologia consolatoria dei Kathedersozialisteno le utopie disarmate dei socialistas, ma la comprensione rigorosa dei meccanismi di funzionamento della società capitalistica offerta dalla dottrina del materialismo storico. Tanto nella battaglia politico-culturale interna al movimento operaio, quanto nello scontro fra borghesia e proletariato, le sorti del conflitto sono affidate alla capacità di padroneggiare ai propri fini gli strumenti di potere congiunti alla crescita dell’intelletto scientifico — questa la grande «scoperta» engelsiana dopo l'unificazione di Gotha, questa la svolta effettiva nel passaggio del socialismo «dall’utopia alla scienza». D’altra parte, la fecondità dell’impostazione engelsiana era strettamente connessa alla capacità di assumere in forma dinamica il rapporto fra assetto epistemologico della teoria e sua finalizzazione politica, fra forma e funzione del materialismo storico, fra impianto categoriale e trasformazioni economico-politiche.
Indubbiamente il materialismo storico — per la prima volta nominato come tale in quelle pagine dell'Antidühring che ne rappresentano anche la prima formulazione sistematica - appariva all’indomani di Gotha come la teoria che meglio di ogni altra corrispondeva alle finalità di un partito «ancora così giovane»: quando la legislazione antisocialista, la repressione poliziesca, le angustie materiali indotte dalla Grande Depressione sembrano poter intaccare le fondamenta dell’organizzazione politica della classe operaia, allora è certamente necessario contrapporre agli «oscuri evangeli» delle varie sètte socialiste e alle loro «illusorie panacee» una teoria capace di presentare anche questa difficile fase della lotta di classe come passalo obbligato di un percorso inevitabilmente destinato a concludersi con la vittoria del proletariato. In un frangente storico così caratterizzato, una concezione, come quella storico-materialistica preconizzata da Engels, fortemente connotata in senso teleologico, costruita come teoria generale in grado di predire l'avvento del socialismo come risultato scientifico, anziché come speranza utopistica, poteva costituire il riferimento più adeguato per una classe operaia sottoposta ad attacchi di inaudita durezza, arroccata a difesa del proprio «patrimonio», chiusa in se stessa in attesa della liberazione. Non a caso nel periodo fra il 1875 e il 1891, fra il Congresso di Gotha e quello di Erfurt, il «marxismo» perde la precedente connotazione peggiorativa di « nomignolo usato per qualificare una delle numerose sètte interne alla I Internazionale», e assume una più definita identità teorica nella forma specifica di materialismo storico.
Pur nei limiti di un ragionamento inevitabilmente molto abbreviato, il percorso che si è fin qui seguito consente forse di raggiungere alcune conclusioni più generali e di sollevare soprattutto taluni problemi intorno ai quali con lena rinnovata e con strumenti analitici nuovi occorrerebbe riaprire un nuovo ciclo di studi. Anzitutto, la complessa vicenda culminante nel Congresso di Gotha conferma, in sede strettamente storiografica, l’inattendibilità di una ricostruzione della storia del marxismo che ne arretri la nascita in quanto «dottrina» — e non semplicemente come fazione interna alla socialdemocrazia — ad un periodo precedente ai primi anni ottanta del secolo scorso. In secondo luogo, gli avvenimenti a cavallo del congresso di unificazione stanno a dimostrare l’indissolubile intreccio esistente fra la forma politica e organizzativa assunta dal nuovo partito operaio e la configurazione sistematica, la carica teleologica, l’assetto epistemologico del marxismo, vale a dire la stretta connessione fra le finalità e la strategia dell’Spd e il processo di costituzione del marxismo come dottrina storico-materialistica. La stessa formulazione della «visione comunista del mondo», contenuta nell’Antidühring, corrisponde inoltre non soltanto alla necessità di sostituire agli «oscuri evangeli» delle sètte socialiste un’unica teoria universalmente riconosciuta, ma è altresì funzionale alla costruzione di un socialismo diverso «da quelli esistenti fino allora».
Alla luce di queste acquisizioni generali, si impongono altresì alcuni interrogativi, ai quali conclusivamente conviene almeno accennare. Se la genesi storica del marxismo come materialismo storico va riferita alle complesse vicende storiche che accompagnano la fondazione del partito social-democratico unificato e, più ancora, al difficile periodo della grande depressione, c’è da domandarsi se la configurazione specifica assunta dal marxismo debba essere considerata invariante rispetto alle trasformazioni successivamente verificatesi sia nella forma e nella strategia del partito, sia nelle condizioni oggettive in cui esso si trovò successivamente ad operare. Viene, cioè, da chiedersi se, una volta attraversato il lungo tunnel della legislazione antisocialista e dell’impoverimento dell’era bismarckiana e una volta rinsaldata l’unità interna, al riparo da possibili scissioni settarie, il tener fermo alla «visione del mondo» enunciata nell’Antidühring non si sia configurato come un elemento di freno — e quindi di precoce dissoluzione — delle potenzialità espansive del marxismo e, insieme, come fattore non congiunturale di crisi della sua capacità di funzionare come guida teorica della social-democrazia tedesca. Questo problema risulta ancor più stringente ove si pensi che le modificazioni intervenute nel periodo fra Gotha ed Erfurt nella strategia della Spd — abbandono dell’ipotesi di una « rivoluzione di minoranza », uso del suffragio elettorale e della lotta politica «legale», alleanza con i ceti medi — erano di tale portata da mettere radicalmente in questione l’impostazione rigidamente «operaistica» e l’ispirazione «rivoluzionaria» della concezione storico-materialistica. Non a caso, proprio il timore che i successi conseguiti dal partito socialdemocratico con l’uso di metodi legali potessero indurre ad abbandonare la «teoria proclamata nel Manifesto» doveva indurre Engels a riconfermarne con forza la validità e la piena compatibilità con la nuova strategia del partito in quel documento di eccezionale rilievo che costituisce il suo testamento politico (ndr, si tratta dell'Introduzione alla ristampa delle Lotte di classe in Francia e in Germania diKarl Marx, del 1895). Di fronte alla possibilità che gli eventi dell’ultimo decennio suonassero come confutazione della capacità preditiva della concezione storico-materialistica, Engels oppone l’invarianza del « metodo » rispetto all’inevitabile approssimazione dei risultati, bloccando sul nascere l’avvio di un processo di rigenerazione del marxismo e riducendo il lavoro di ricerca per sempre in termini di semplice interpretazione. Dopo Engels, e per un lungo periodo ancora oggi lontano dall’essersi concluso, il «socialismo» sarà «scientifico» non in quanto si dimostri capace di fornire strumenti idonei a decifrare e a governare le contraddizioni sociali, ma solo in quanto si riveli coerente con la forma logico-epistemologica di un modello teorico — il materialismo storico, appunto — in cui la specificità dei saperi particolari è riassunta come articolazione di un unico sapere fondamentale.
Da “Rinascita”, 16 ottobre 1981. Senza le note.