Me ne tornavo a casa a piedi nel quartiere di Ampasikibo, quando una giovane donna snella, vestita miseramente, mi si affianca sorridendo. Due parole, due sguardi e subito scatta l’attrazione. A stento, in quei pochi metri in cui abbiamo camminato affiancati, resisto alla tentazione di cingerle i fianchi con un braccio. Poi ci salutiamo, “veloma, veloma”, arrivederci. Non succede niente fino al giorno dopo, quando la scena si ripete, nella stessa strada ma un po’ prima. Sento una voce che mi chiama. La riconosco. Mi volto, è lei: Lalah. Arditamente le chiedo: “Ahia trano?”, dov’è casa? Distende un braccio e con il dito indice indica una catapecchia scrostata e fatiscente che si affaccia sulla strada, circondata da un recinto di bastoni storti che delimitano la proprietà ma che lasciano intravedere tutto all’interno del cortile, senza un minimo di privacy. Mi fa accomodare, mi fa sedere sul lettone, apre la finestrella perché entri luce. Ci sediamo vicini e la bacio sul collo, sulla bocca, senza esagerare, le succhio delicatamente e fugacemente il capezzolo destro finché, con gesto vezzoso, non rimette a posto la spallina della vestaglia, con cui era uscita in strada a chiamarmi.
Sono emozionato. E anche lei. Non è una “makorele”, una prostituta, ma una donna del popolo, come piacciono a me. C’è una ragazza con bambino nell’altra stanza, probabilmente sua sorella. Mi alzo e mi rimetto il berretto. Inforco gli occhiali. Può bastare come secondo incontro, entrambi fortuiti e voluti da lei, che ha trovato il coraggio di abbordare un vazaha, uno straniero, sulla pubblica via. Esco ancora confuso, ma prima di uscire metto mano al portafoglio, 5.000 ariary, ringraziandola più volte: “Misaotra, misaotra”. Un bel regalo per lei. Un bel regalo per me, dal sapore della trasgressione. Il giorno dopo mi presento con una Coca Cola formato famiglia nello zainetto, per un’altra veloce visita, durante la quale vengo a sapere che ha trent’anni, ma non ha un fidanzato e nemmeno un lavoro. Solo la madre mantiene lei, sua sorella e la nipotina. E comincio a farmi il film: l’albergo a ore dove portarla, gli orari in cui posso incontrarla senza insospettire mia moglie, i luoghi dove sono sicuro di non fare brutti incontri - e per brutti incontri intendo persone della famiglia di Tina che potrebbero fare la spia.
Dopo un paio di giorni decido di procedere con l’agenda mentale che mi sono fatto, dando il tempo a Lalah di abituarsi alla nuova situazione. Idea! Le chiedo di accompagnarmi al mercato di Bevoalavo, poco lontano, e le faccio capire che la spesa, riso, fagioli, ecc. sarà per lei e per la sua famiglia. Piuttosto che mi chieda soldi, come fanno tutti i malgasci quando incontrano un vazaha, preferisco corteggiarla con aiuti alimentari. Se non si potrà parlare di amore vero e proprio, almeno dovrebbe scattare in lei il sentimento della gratitudine, che è quello che più si avvicina all’innamoramento. Le spiego le mie intenzioni, le mostro i sacchetti di plastica che mi sono portato dietro, le ripeto più volte “vary, tsaramaso”, riso, fagioli. Lei si prepara velocemente e ci avviamo. Camminandole a fianco, percepisco la sua tensione. Le do da tenere in mano i sacchetti e anche quello in tela per il “siramami”, lo zucchero. Le do 10.000 ariary e mi raccomando con lei: stai attenta che non ci facciano “vazaha-profit”.
Arrivati al mercato, comincio ad indicarle la merce, fagioli di tutti i tipi, canne da zucchero tagliate a segmenti, perfino la radice del “sondro”, il taro, ma lei dice sempre di no. Si rifiuta di comprare per qualche ragione a me incomprensibile. Passiamo davanti a una commerciante di cocomeri e zucche, seduta per terra, che mi riconosce e mi chiede: “Dov’è Tina?”, a casa, le rispondo, con Lalah sempre al mio fianco. Poco più in là, all’interno dell’adiacente mercato di Sakamaha, dico alla mia nervosa accompagnatrice: “E’ meglio se tagliamo di qua – indicandole una delle labirintiche stradine del mercato – perché dritto davanti a noi ci sono persone della famiglia di Tina che non ci devono vedere insieme”.
A quel punto capisco che c’è qualcosa che non va. Di fronte a una bancarella di uova, la ragazza sembra voglia comprarne, ma qualcosa la blocca. Stanno facendo vazaha-profit? - le chiedo, non ricordandomi in quel momento il prezzo delle uova, ma il problema è un altro. Alla fine riesce a trovare il coraggio per sputare il rospo. “Voglio tornare a casa”, mi dice con lo sguardo di una bambina persa nel bosco, frequentato dal lupo cattivo. Okay, usciamo di là, le rispondo, mostrandole il cancello dell’entrata principale (noi eravamo entrati per dietro). Tornando verso casa sua, le chiedo: “Zahao vazaha hendry, fa maninona ianao mataotra?”, io sono uno straniero gentile, perché hai paura? La risposta è stata per me inaspettata: “Zaho mataotra valinao”, io ho paura di tua moglie. Sono rimasto basito. La ragazza, dopo aver avuto il coraggio di fermarmi per strada ben due volte, ora aveva paura di essere scoperta e malmenata da Tina. Un carattere infantile e immaturo, il suo, che forse spiega perché a trent’anni non avesse ancora messo su famiglia, com marito e figli, essendo sempre rimasta sotto l’ala protettrice della genitrice.
E’ solo un’ipotesi. Come è un’ipotesi che abbia detto di temere la rappresaglia di mia moglie, mentre in realtà non le piacevo più: le donne, si sa, sono bugiarde e alcune anche abili dissimulatrici. Lei però, Lalah, mi è sempre sembrata sincera ed ingenua, una popolana come tante altre, per nulla abituata ad aver a che fare con gli stranieri, pur sapendo, per opinione diffusa, che essi sono di norma oggetti del desiderio per la totalità delle donne malgasce, sposate o nubili che siano. Io, per quanto riguarda i miei sentimenti, mi sono rassegnato all’istante, il film la cui proiezione doveva ancora avvenire, è stato sospeso, il Mandala tibetano, dopo laboriosa composizione, è stato distrutto con una filosofica manata, l’onorabilità dell’istituzione matrimoniale è rimasta intatta e le corna le lasciamo ai collezionisti di trofei venatori. Congedata la fanciulla, io sono andato in centro, al supermercato Score, a comprarmi una bottiglia di vino bianco dolce. The show must go on.