Un, due, tre, stella!

di Filomena Baratto

Vico Equense - Uno spot pubblicitario mi ha riportato a questo gioco della mia infanzia. E così mi sono trovata giù al cortile di casa a giocare con i miei amici. Scendevamo dopo le 17:00, come da regolamento condominiale e passavamo lì il pomeriggio delle giornate primaverili ed estive. Si sceglieva il gioco votato a maggioranza e il nostro preferito era “Un, due, tre, stella”. La difficoltà del gioco era bloccarsi fingendosi statua quando il compagno, nostro giudice, si girava verso di noi, e muoversi quando invece si girava di spalle. Finita la frase “Un, due, tre stella”, si girava a controllare le statue. Allora accadevano le situazioni più strane e ridicole: qualcuno cadeva, qualche altro faceva finta di non essersi mosso, altri facevano piccoli passi per non cadere, ma finivano con le mani a terra. Qualcuno, pur di non essere squalificato, non si muoveva. Mi piaceva restare immobile nelle pose più strane cercando di non ridere. Ci voleva molto autocontrollo, tanta ironia e voglia di raggiungere la meta. Alcuni, appena il compagno si girava, facevano passi lunghissimi, impossibili, per raggiungere subito il traguardo. A quel punto ricadevano in coda e così si andava avanti fino a quando non ci concentravamo. Era sorprendente trovarsi al traguardo e cogliere di sorpresa il compagno mentre pronunciava: "Un, due, tre stella" prendendo così il suo posto. C’era chi chiacchierava mentre era statuina, chi raccontava barzellette, chi si arrabbiava per non riuscire ad avanzare.
 
A sera, soprattutto d’estate, quando i genitori ci chiamavano per rientrare, eravamo tutti imbronciati. Sudati, stanchi e affamati tornavamo a casa, ma sazi di giochi. In estate avevamo più tempo e al tramonto eravamo ancora giù a discutere spargendo le nostre voci per il vicinato e restavamo lì fino a quando non ci avvolgeva il buio. Dalle terrazze del palazzo si affacciavano le mamme: ora una ci riprendeva dicendo di non sudare, una’altra di non scalmanarci, un’altra ancora di non fare tardi. Tutte li a controllarci, a sorvegliarci. Succedeva per me, qualche volta, di non poter scendere e così partecipavo silenziosamente a quanto accadeva giù appena sentivo la parola “un, due, tre, stella”. Chi controllava le statuine era sempre il compagno più divertente. Scherzando diceva che ci eravamo mossi, che non stavamo in equilibrio, che avevamo barato e ci faceva tornare indietro senza troppa convinzione da parte nostra. Abbiamo imparato, in quel cortile, a convivere. C’era sempre un mediatore che si adoperava per la pace tra tutti, faceva il portavoce di quelli più timidi che non riuscivano a dire la loro, così come c’erano quelli che continuamente brontolavano e mettevano zizzania. Quando si giocava, andavamo tutti d’accordo, c’era un feeling pazzesco ed era il momento più formativo: all’opera senza inimicizie e puntando alla meta. Un, due, tre, stella era un motto di gioia e quando il più veloce correva a battere le mani al muro per aver portato a termine la traversata da statuina, si ricominciava daccapo con maggiore interesse. Giocare all’aperto era fondamentale come respirare. Oggi il computer ha rubato il tempo ai bambini, ha sottratto loro la voglia di giocare insieme. Spesso sono arrabbiati, scontenti e scontrosi, non per reali motivi, solo per emulare i loro eroi dei giochi a computer. Quanto tempo giocano i bambini, oggi? Pochissimo! I parchi dove portarli sono meno attrezzati dei cortili di una volta. Bisogna accompagnarli e sorvegliarli e, se hanno la fortuna di uno spazio condominiale, devono condividerlo con i ragazzi più grandi. E poi calcolare tutto il tempo impiegato per la palestra, per il nuoto, per il calcetto, sport a cui partecipano proprio per sopperire la mancanza di spazio e luoghi sicuri da frequentare. Un’ora di gioco era molto più efficace di tante palestre di oggi. Tra compagni ci si sperimenta, si mette alla prova la capacità di relazionarsi, la pazienza, la comprensione, l’adattamento, l’educazione. Una volta non si sceglieva con chi giocare, la compagnia era eterogenea e ci si poteva confrontare con tutti. Oggi i bambini hanno compagnie scelte, soprattutto dai genitori che li indirizzano in base alle loro e, mentre dovrebbe essere una sicurezza, diventa per questi uno stress. Potersi relazionare con tutti è un grande segno di maturità e i bambini dovrebbero iniziare già da piccoli la loro palestra di amicizie. I litigi di allora si risolvevano tra di noi e le mamme non intervenivano mai nelle nostre questioni. Oggi le mamme vogliono risolvere i problemi dei figli come questioni personali e non capiscono che così facendo li rendono incapaci e immaturi. Si evitano discussioni, chiarimenti, scuse, confronti. A volte sono proprio i genitori ad insegnare ai figli ad essere furbi, a cosa devono rispondere, a come comportarsi. Il motto preso ad esempio è “non portare mazzate a casa”, oppure “non fartela con chi non mi piace”, o anche di menare quando gli altri si mostrano prepotenti. Tutte indicazioni diseducative ed inefficaci. Un bambino per crescere ha bisogno delle sue esperienze non di comportamenti da adottare senza essersi trovato in situazione. In questo caso addestriamo i figli, non li educhiamo. Educare significa capire prima di agire, comprendere l’esperienza, decidere l’azione più giusta, senza sofferenza per noi e per gli altri. I genitori devono controllare, conoscere, aiutare, essere presenti, ma mai mettersi al loro posto. Il gioco a questa età è un vero lavoro, un continuo rapportarsi col mondo. Non possiamo bloccare le loro iniziative solo perché si sporcano o il compagno non ci piace o fanno perdere tempo o temiamo le conseguenze. L’educazione è lenta, impegnativa, avviene quando si crea un canale tra noi e loro, fatto di comprensione, di pazienza, di attesa, di affettuosità, e anche di debolezze. Mostrare le proprie debolezze non significa non essere autorevole. Autorevole è colui che è vero, non chi vuol sembrare forte. I giochi sono formativi ed educativi. Quelli all’aria aperta sono completi e naturali. Più che tante cose per loro progettiamo luoghi aperti dove farli ritrovare, stare insieme, da bambini e da adolescenti. Un buon rapporto con i compagni in tenera età ci dà la prospettiva di un buon rapporto con gli altri anche in età adolescenziale e adulta. Un, due, tre stella,è quasi un motto per stare insieme, una parola magica e nel gioco tutti si ritrovano. Giocare da piccoli è imparare a trovare anche le soluzioni ai giochi dei grandi, del mondo.

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