Victorino


L’ho chiamato Victorino perché anni fa conobbi una bimba poliomielitica che giocava davanti a un negozio di Karana, spostandosi sulle ginocchia. Lo faceva tra una pausa e l’altra delle sue richieste di elemosina, come fanno molti handicappati a Tulear e nel resto del Madagascar. Oggi Victorina, che a volte negli anni seguenti vedevo seduta in carrozzella con il padre che la spingeva in giro per la città, è una giovane donna che si sposta autonomamente camminando sulle ginocchia. Anche Victorino si sposta autonomamente, ma non va in giro a chiedere soldi ai passanti, bensì a cercare quelle rare erbe che possono sfamarlo. Lo incontro quasi tutte le volte che dalla casa di Ampasikibo, in cui sono in affitto, vado in centro a fare spese. Quando sono a piedi mi fermo a fargli una carezza e ho scoperto che non è “masiaka”, cattivo, come qualche passante mi aveva detto.



Le carezze sulla testa irsuta non gli fanno piacere, ma non gli procurano nemmeno dolore, né fastidio. Benché abbia un aspetto infernale, con testa, orecchie e corna che sono state prese a simbolo dai satanisti, Victorino ha un carattere placido. Quando non deambula trascinandosi con le zampe anteriori paralizzate, se ne sta all’ombra a rimuginare. Sia Victorino che Victorina hanno sviluppato degli spessi calli sulle ginocchia, e non poteva essere diversamente, ma mentre per la ragazza si sa che la causa del suo handicap è la poliomielite, per Victorino non posso dire se si è trattato di un trauma infantile, cioè se si è spezzato le zampe all’altezza delle ginocchia, o se è nato così.




Di fatto, oltre alla disgrazia che si porta dietro, Victorino ha subito anche la violenza psicologica di essere stato tolto dal gregge, ma sembra che a questo ci sia abituato. Poi, bisogna vedere se vivere in quelle condizioni è stata veramente una disgrazia per lui, perché la mia sensazione è che il proprietario, un malgascio di nome Ilaza che abita poco distante, lo abbia in qualche modo graziato e lo lasci campare finché non sopraggiungerà la morte naturale. L’unica condizione è che deve trovarsi il cibo da solo. Il nostro conducente di ciclo-poussy di fiducia, Sambendaty, ci ha mostrato anche la casa dove il signor Ilaza vive, ma io non me la sento di andare a disturbarlo per così poco. Preferisco immaginare un guizzo di bontà, che ai malgasci non è del tutto sconosciuta, e lasciare che questa favola stia in piedi così: una capra che non conoscerà il coltello dell’assassino perché il suo padrone teme di offendere gli antenati, i “razana”, o per qualche ragione meno superstiziosa.




Oltretutto, nella stessa via mi è capitato di vedere anche uno zebù deambulare zoppicando e Sambendaty mi ha confermato che anche lui è di proprietà del signor Ilaza. Anche in questo caso, lo zebù ha dovuto rinunciare alla mandria, che per un animale gregario è sinonimo di protezione e forse anche per lui potrebbe valere lo stesso principio ed avere salva la vita grazie al fatto di zoppicare. Ma, in questo caso, visto il valore commerciale della carne di zebù, ho qualche dubbio. La bontà d’animo di un allevatore non credo si spinga fino a tanto.

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