Pierfranco Bruni |
ROMA - Il vento nel paese di Grazia Deledda. A novant’anni dal Premio Nobel. L’unica scrittrice italiana. Uno dei temi predominanti, che assume valenze metaforiche e caratterizza la poetica di Grazia Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 - Roma, 15 agosto 1936) è, certamente, il vento. Il vento in un gioco di immagini che riporta ricordi, sogni e sensazioni.
Il vento come onde nell’isola ma anche come fuga. Come attesa. Come infinito gioco lungo i giorni. Nobel nel 1926. Unica scrittrice italiana.
In quasi tutti i romanzi di Grazia Deledda l’incontro tra il vento e l’amore assume una forma emblematica. L’amore e la passione sono, appunto, segno di un attraversamento che si coniugano però con la memoria. Il romanzo di Deledda è costruito sulla memoria. E il racconto diventa un liberarsi dalla storia e un ritrovarsi nel luogo di una memoria che non è più realtà ma favola.
E a volte la favola è anche tragedia. O meglio la realtà che diventa favola nella memoria si consuma nel dolore e nella tragedia. Proprio per questo una componente della narrativa di Grazia Deledda resta la morte. La morte come sentiero misterioso. Si pensi a Elias Portolu del 1903. Si pensi alle straordinarie pagine de Il paese del vento del 1903. Ma il dolore come sentimento e come esperienza lo si riscontra in La via del male del 1896, in La giustizia del 1899.
C’è una ricca bibliografia che Deledda ci ha lasciato. Diverse stagioni si intrecciano e l’intreccio è sempre più un volo di segreti che rivela, tassello dopo tassello, pezzi di verità.
L’amore e la morte sono, dunque, itinerari fissi. “E ricadeva nel ricordo, e sentiva che oramai amava Maddalena fino alla morte, e che alla prima occasione sarebbe ricaduto; ed a questo pensiero gli si rizzavano i capelli per l’orrore. Così fece il viaggio” (in Elias Portulu).
Ma l’amore e la morte sono dentro l’emisfero della cultura popolare proposto da Deledda. Non si recupera soltanto un tempo passato, per Grazia Deledda, in quanto il tempo passato si porta dentro il tempo di una civiltà con le sue tradizioni, con i suoi riferimenti e con quella storia che diventa leggenda e mito.
Si pensi alle pagine di Canne al vento del 1913. Si pensi ai racconti di Sangue sardo. Si pensi in modo particolare a Marianna Sirca del 1915. Il mondo arcaico è il modo contadino con i suoi costumi e con la sua identità. I personaggi che vi campeggiano sono i personaggi incapsulati nel destino di quella civiltà.
Perché è in quella civiltà che le trasformazioni risultano lente e nonostante tutto l’amore - passione e la morte non conoscono limiti. L’isola non è soltanto uno spazio geografico reale ma assurge anch’essa come il vento a metafora. Il racconto più che un racconto si fa canto, nenia, lamento in alcune circostanze e nostalgia.
Ci si ritrova a fare i conti con il passato. Il sole è sempre nel tramonto. Ci sono scene che hanno colori suggestivi. Così: “Il sole era tramontato nell’orizzonte di fuoco, le montagne si erano velate e la nebbia saliva con le ombre del crepuscolo, ma la fanciulla non si muoveva. Pareva macchinasse qualcosa di orribile, di fantastico, perché delle nubi starne passavano sulla sua fronte” (in Sangue sardo). Scenari e immagini disegnano atmosfere lungo lo scorrere del tempo che invade la vita.
È ne Il paese del vento che gli scenari e le atmosfere si rincorrono. Così come si rincorrono i ricordi e gli amori. Il vento riporta quei giochi della giovinezza o quella giovinezza fatta di avventure e di parole. È proprio in questo romanzo breve che Grazia Deledda puntualizza tutto il suo viaggio. Un viaggio fatto sì di parole ma anche di esistenza. Dirà: “Non pensavo di negarlo, e neppure di spiegarlo, il mio contegno di quel tempo, tanto più che non riuscivo a spiegarlo neppure a me stessa; e se oggi scrivo questo libro è per giustificarmi, di fronte ai vive ed ai morti, e soprattutto di fronte alla mia coscienza”.
Credo che Il paese del vento sia uno dei libri più belli di Grazia Deledda. Qui la sfuggente passione è tenero amore. L’incoscienza è consapevolezza. I miti sono nei ricordi. E le conchiglie riportano echi e lontani desideri. Il paese si vive tra il vento, la luna e il mare. Si riscoprono le danze antiche e le stagioni hanno colori e suoni che attraversano le epoche. Le epoche sono attraversate dai sogni e dai passati amori. Il mito della terra. “D’inverno era scuro e umido anche il colore del paese: bruciato e rossiccio d’estete: di primavera, invece, e dopo le prime piogge d’autunno, i vecchi tetti coperti di musco ricordavano qualche cosa di preistorico, come appunto un villaggio costruito di macigni, sui quali rinasceva il verde di una vegetazione tenace e vergine di alta montagna”. Il mito delle stagioni e della terra nell’appartenenza ad un popolo.
Tutto ciò è un segno tangibile dei simboli che si tramandano e che continuano a vivere con il nostro tempo perché fanno parte del nostro sangue e del nostro modo di essere. E poi l’amore ritrovato e negato. Ovvero perduto, riconquistato e abbandonato.
Il paese del vento è, certamente, un testamento che lascia, di Grazia Deledda (Premio Nobel per la letteratura nel 1926), una poetica, che ha un singolare approccio nostalgico. È un racconto, appunto, della nostalgia non solo dell’amore.
Ecco l’inciso più marcato. “Noi ci amiamo, fanciullo, ma non osiamo rivelarcelo con parole mortali, perché il nostro amore ha già qualche cosa che ci spaventa, che ci unisce e ci divide con un colore di odio….se io scendessi adesso fino a te, con la mia carne più impura, e ti tendessi le braccia, tu saresti la cosa più mia, e ti radicheresti in me come il bulbo del giglio nel concio che è mischiato alla terra. Ma io non voglio; non posso scendere…Mi piace l’anima tua vasta, profonda e scintillante come questa notte stellata: e con l’anima mia già scura e nebbiosa voglio parlarti…”.
L’inciso finale di questo brano è una forte visione poetica e l’amore stesso si fa poesia. Ecco. “Ti cercherò negli occhi delle altre donne, ma non ti ritroverò quale tu sei. Ti cercherò fuori di me, mentre tu sarai sempre dentro di me: e tu, per questo, non avrai più bisogno di cercarmi”.
La straordinaria sensazione di questo amore - avventura riempie la vita. E se Grazia Deledda ha scritto questo libro per giustificarsi significa che il legame tra la vita e la letteratura è costantemente omogeneo e sentito. E non ci sono rotture forzate tra le due dimensioni. Soprattutto, quando la letteratura si arricchisce di amore e l’amore è la poesia che aiuta a vivere.
Se il vento è una metafora (come anche in Canne al vento) il paese (con la sua solitudine, con il suo andare, con i suoi personaggi, con l’uliveto, con le madri, con i vecchi e i fanciulli, con le vigne) è una àncora e l’isola resta il viaggio e gli amori misurano il tempo. Su queste coordinate Grazia Deledda è un percorso letterario, che individua sentieri.